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Discriminazione territoriale: ora si esagera

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 Meglio un morto in casa che un pisano all’uscio

Questo è quanto i fiorentini vanno dicendo da secoli riguardo ai loro poco amati vicini di casa che vivono all’ombra della torre pendente, e questo senza che a nessuno sia mai venuto in mente di imbastire talk show, tavole rotonde, chiusure di quartieri cittadini, processi e quant’altro.

Di detti celebri con questo tenore in giro per l’Italia ce ne sono a bizzeffe come l’altro poco amabile inventato da altri abitanti del Veneto nei confronti dei vicentini considerati “magna gatti” che proprio un complimento non è.

E questo solo per fare un esempio su migliaia. Ebbene né i Vicentini né i Pisani si sono mai messi, per questo motivo, sul piede di guerra come, secondo logica, avrebbero dovuto fare, ma al limite hanno sempre risposto semplicemente pan per focaccia a modo loro e…fine della trasmissione. Il nostro paese da sempre è caratterizzato da una incredibile rivalità campanilistica che affonda le sue origini nella notte dei tempi, fin da quelli in cui si girava vestiti con una toga o, se le cose andavano male, con la lorica e con il gladio.

L’Italia, nonostante la sua tarda unità nazionale, non si è mai dimenticata di essere uno stivale dove le differenze etniche, territoriali e sociali sono acuite fino al limite estremo dell’odio municipale e soprattutto sono vissute in tutta la loro virulenza verbale quando non anche fisica. Da sempre è così, e se pensiamo che si insultano e se le suonano di santa ragione pure tra quartieri limitrofi, vedi il Palio di Siena, non dovremmo stupirci più di tanto se il nostro campanilismo ci porta ad lanciare strali vergognosi contro chi abita anche solo a cinquanta chilometri da noi. Questo fa parte della nostra natura punto e basta, una natura che è talmente radicata nella storia che è impossibile, all’alba del terzo millennio, pretendere di correggere o addirittura annullare.

Ora, se da parte delle autorità sportive è stato sacrosanto e giusto mettere l’accento e stigmatizzare comportamenti beceri verso singoli giocatori per il colore della loro pelle, comportamenti che finiscono per tracimare nell’insulto e nell’umiliazione personale, che è tutta un’altra cosa, la crociata che si è in seguito allestita e che è arrivata fino al punto di pretendere di combattere la cosiddetta discriminazione territoriale ci sembra avere le caratteristiche più di una guerra contro i mulini a vento che di una serie politica “realista”. Questo accanirsi da parte della FEDERCALCIO, derivata a sua volta da quella dell’UEFA con chiusure più o meno parziali, più o meno condizionali e con multe più o meno dolorose per le società, non ha a nostro giudizio basi concrete ma semmai vagamente utopiche.

Chi scrive frequenta gli stadi di calcio fin dagli albori degli anni settanta, fin da quella mitica partita che diede alla Juve la conquista del tredicesimo scudetto contro il Lanerossi Vicenza nelle cui fila giocava ancora quel Cinesinho ex giocatore della Vecchia Signora approdato a fine carriera proprio tra i “Magna gatti” di cui sopra. Non ero tifoso della Juve ma, abitando a Torino, mi interessava comunque il calcio ancora epico e leggendario che si praticava allora.

Ebbene anche quel fatidico giorno di fine campionato, nella curva juventina in cui ero, si sentivano gli sfottò anche belli pesanti (gli sfottò non sono mai leggeri) nei confronti dei poveri vicentini, complimenti perfettamente rimandati al mittente dagli stessi simpatizzanti bianco rossi. Allora di chiusure di curve, di discussioni mediatiche o tavole rotonde neanche l’ombra, allora al limite le tavole potevano solo…diventare calde perché potevi mangiarci uno spuntino a basso prezzo. Anche negli anni successivi frequentai, sporadicamente, oltre al Comunale di Torino, anche l’Olimpico di Roma, a proposito del quale si potrebbero scrivere libri interi sugli epiteti e sugli striscioni poco simpatici che andavano in voga già allora all’indirizzo dell’avversario di turno o magari del povero arbitro. Uno di questi me lo ricordo bene perché urlato da un tifoso vicino a dove ero seduto io: “A bacarozzo nero!!”. E non mi si venga a dire che questo era un complimento e che… non era rivolto ad una persona ben precisa vestita di nero.

Tutta questa mia lunga ma doverosa premessa mi serve per dimostrare che il tifo negli stadi da sempre si è manifestato in questi termini, chiamiamoli così, gergali e da osteria. Da sempre le tifoserie opposte si sono lanciate insulti e se ne sono dette di tutti colori e non ci si venga a dire che c’è insulto e insulto… quando dai dell’imbecille ad uno non ci sono altri termini efficaci per descrivere quanto è appena uscito dalla tua poco amabile bocca. Così è e così succede fin dalla notte dei tempi senza che dobbiamo scandalizzarci più di tanto: pensare di ridurre la massa di tifosi ad una educata e sobria congrega di religiosi in preghiera, vuol dire vivere in un altra realtà, una realtà da favola, dove il lupo si scambia barzellette con l’agnello e dove l’uomo non è “lupus” per il suo simile. Un mondo diciamo bello, bellissimo, ma che non appartiene a questa era “ante Judicium universalis” quale ci tocca vivere volenti o nolenti. Qui nessuno dice che insultarsi sia bello e indice di civiltà, ma, al limite che lo stesso insulto, se circoscritto alle gradinate di uno stadio, non solo serve a convogliare in un alveo accettabile le enormi tensioni di una società ben lungi dall’essere perfetta, ma finisce pure per dare un po’ di sale e un po’ di vivacità ad un evento che di questi ingredienti comunque si nutre.

Pretendere che allo stadio si respiri miracolosamente l’atmosfera che si crea in piazza San Pietro quando il Santo Padre si affaccia dal balcone del suo studio, francamente ci sembra utopico e poco o per nulla realistico. Se proprio un doveroso sforzo deve essere intrapreso, questo non può non andare nella direzione di rendere sicuri i nostri stadi e dintorni proprio per ridare all’evento sportivo la sua giusta connotazione, una connotazione fatta di serenità, di divertimento, di rispetto della vita degli altri, ma anche di passione, quella con la P maiuscola, quella capace di toglierti per un attimo quella patina di perbenismo ipocrita dietro cui ci nascondiamo nella vita di tutti i giorni. Anche i Romani dicevano che “semel in anno licet insanire“, ben sapendo che l’animo umano è fatto anche di oscure parentesi di insolita illogicità, una illogicità che ci rende anche, grazie al cielo, dissimili dagli automi di asimoviana memoria e che per un attimo ci rende, perché no, un po’ più animaleschi di quanto già non siamo. L’importante è che sappiamo dare a questo nostro “giocare a fare il dott. Jekill” la sua giusta collocazione e la sua brava limitazione comportamentale, territoriale e temporale. Questo è in fondo l’unico modo che abbiamo per esorcizzare quella piccola parte di animalità che continua a vivere in noi. 

di Roberto Crudelini

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Di Roberto Crudelini

Nato nel 1957. Laureato in Giurisprudenza, ha collaborato con Radio Blu Sat 2000 come autore e sceneggiatore dei Giornali Radio Storici, ha pubblicato "Figli di una lupa minore" con Rubettino, "Veni, vidi, vici" e "Buona notte ai senatori" con Europa Edizioni e "Dai fasti dell' impero all'impero nefasto" con CET: Casa Editrice Torinese. Collabora con Elzeviro.eu fin dalla sua fondazione, nel 2011.

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