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Se la Ferrari non parla italiano

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Storia di un paradosso tutto nostrano

       Sebastian Vettel ha vinto, anzi stravinto per la quarta volta di seguito il titolo iridato al comando della Renault-Red Bull e nulla hanno potuto contro il suo strapotere  sia Alonso che Massa, piazzatisi nella classifica finale rispettivamente al secondo posto a ben 115 punti di distanza e al settimo a 220 punti.

Le cifre stanno a  dimostrare che praticamente non c?è stata quasi mai competizione. Un mezzo fallimento questo che lascia l?amaro in bocca e che mi costringe ad andare un po? contro corrente rispetto all?opinione generale, pronta a tifare per uno spagnolo e un brasiliano.

 Il mio ragionamento parte da lontano e cioè proprio da quel mito nazionale che la casa di Maranello rappresenta da sempre, un  mito nazionale  che affonda le sue radici in quell?Enzo Ferrari, ideatore e poi pilota del cavallino rosso, che ha contribuito in modo determinante a creare un fenomeno sportivo e mediatico unico al mondo. Un fenomeno  che le altre nazioni, anche se in modo spesso implicito e quasi vergognoso, sotto sotto ci invidiano.

La figura di Enzo Ferrari continua a stagliarsi con fiero cipiglio e ad aleggiare nelle officine della rossa più amata dagli Italiani. Ferrari era un italiano verace, un tipico esempio di genio italiano, era emiliano, mai domo ma soprattutto pieno di quelle energie e di quella iniziativa che hanno fatto ricco il nostro paese negli anni immediatamente successivi alla tragedia dell?ultimo conflitto mondiale. Ferrari rappresenta l?autentico spirito imprenditoriale italico, uno spirito che ultimamente, causa una crisi economica senza precedenti a livello mondiale, ne ha in parte deturpato le ali e dimezzato le potenzialità. Ma il nostro Enzo nazionale è ancora là ad indicarci la strada, una strada fatta sì di sacrifici, ma anche di grande creatività e soprattutto di un?immensa dose di coraggio, doti proprie, non c?è dubbio, dello spirito italico o, come direbbe qualcuno in modo spregiativo e invidioso, italiota.

Ma, a questo punto, è proprio la figura nazionale del compianto Enzo a metterci un dubbio, a minare le nostre vetuste e casalinghe certezze: se Ferrari fosse stato, che so, un inglese importato, o un monsieur Ferrarì emigrato con fortuna e bravura sulla italica sponda al di qua delle Alpi, cosa sarebbe successo? Probabilmente in questo caso il mito Ferrari non sarebbe sorto neanche allo stato embrionale. Gli Italiani, sempre con il condizionale per carità, forse si sarebbero appassionati di più alle due ruote dietro le imprese dell?amatissimo Rossi, o di Capirossi, di  Max Biaggi o del compianto Simoncelli. Ebbene allora a questo punto, come direbbe qualcuno, sorge spontanea una domanda: perché gli Italiani continuano ad appassionarsi alle imprese di un onesto “pedalatore” spagnolo e di un altrettanto onesto stipendiato brasiliano? Ai posteri l?ardua sentenza?

E sì perché, a pensarci bene, alla fine chi va sul podio? Quale inno nazionale viene suonato se il pilota ferrariano vince il Gran Premio? Non certo quello italiano, ma semmai quello spagnolo, o quello brasiliano e in tempi passati quello tedesco. Come dire, noi Italiani facciamo il lavoro sporco, come cambiare un alettone o una gomma, mentre agli altri va la gloria? . Personalmente, a costo di essere preso, a torto, per un anti ferrarista e quindi un anti italiano, io non mi appassiono per niente a questo stucchevole “poliglottismo  guidereccio” e ricordo con nostalgia i tempi in cui su quel benedetto posto di guida si accomodava un pilota italiano, punto e basta. Mi riferisco magari alla brevissima parentesi di un Fisichella, ad un Alboreto e, molto prima di loro, al povero Lorenzo Bandini, immolatosi tra le fiamme nel circuito di Monte Carlo per difendere i nostri colori, quando si usava ancora difenderli ma soprattutto?farli difendere. Questi, scusatemi, sono i miei miti, superiori anche a quelli tutt?altro che banali di un Jacques Villenueve o di un Niki Lauda, per un motivo, forse questo sì banale ma comunque genuino, di bandiera e orgoglio nazionale.

Ora, mentre nel mondo delle moto esiste una razionalità di fondo che porta a fare il tifo per i nostri piloti e a fregarcene altamente del tipo di moto che gli stessi hanno sotto le loro beneamate terga, tutto questo incredibilmente e in modo splendidamente irrazionale non funziona se a quelle due ruote ne aggiungiamo altre due. Qui sembra prevalere l?identità nazionale sul colore rosso del motore e del telaio anche se quel colore si avvale della perizia timoniera di un nocchiero dai natali oscuri e stranieri. Qui più che l?uomo sembra valere il principio dell?adozione e?il nome dell?adottante, come d?altronde succedeva sulle sponde del Tevere duemila anni fa: in questo almeno siamo rimasti coerenti.

di Roberto Crudelini

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Di Roberto Crudelini

Nato nel 1957. Laureato in Giurisprudenza, ha collaborato con Radio Blu Sat 2000 come autore e sceneggiatore dei Giornali Radio Storici, ha pubblicato "Figli di una lupa minore" con Rubettino, "Veni, vidi, vici" e "Buona notte ai senatori" con Europa Edizioni e "Dai fasti dell' impero all'impero nefasto" con CET: Casa Editrice Torinese. Collabora con Elzeviro.eu fin dalla sua fondazione, nel 2011.

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