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Vice, una lezione per gli ultras occidentali

Un irriconoscibile Christian Bale nel ruolo di Dick Cheney

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Il film di Adam McKay offre diversi spunti di riflessione, tra i quali spicca il complesso negazionista di fronte ai crimini dell’imperialismo.

 

Da qualche mese Vice, l’ultima fatica di Adam McKay, è senza dubbio una delle pellicole più attese in vista della prossima cerimonia degli Oscar. Aspettative corroborate non solo dalle 8 nomination guadagnate o dai riconoscimenti già ottenuti ai recenti Golden Globe (da sempre antipasto naturale degli Academy Awards), ma soprattutto dall’innegabile spessore del film, il quale offre numerosi spunti di riflessione, tanto per ciò che concerne l’aspetto tecnico e recitativo, quanto quello contenutistico.

Uno di questi è l’interpretazione corale di un cast che non ha certo bisogno di presentazioni, nel quale si distinguono in particolar modo Sam Rockwell – un imbranato e manipolabile George Bush Jr – ed il Dick Cheney portato sul grande schermo dal trasformista per eccellenza, Christian Bale: probabilmente uno dei migliori attori della sua generazione, certamente il più versatile.

Dick Chaney (Christian Bale) a colloquio con George Bush (Sam Rockwell)

Degne di nota risultano inoltre la regia e la sceneggiatura di McKay. Il regista americano, dopo La Grande Scommessa, ripropone una notevole abilità nel servirsi di toni leggeri e grotteschi per narrare eventi drammatici della nostra contemporaneità, senza per questo sminuirne la portata. Una caratteristica che, unita alla pregevole alternanza tra montaggio cinematografico e documentaristico, rende il suo timbro personalissimo ed estremamente godibile, annoverandolo di diritto all’interno della categoria del cinema d’autore.

 

La guerra in Iraq

Ad onor del vero, tuttavia, ciò che emerge con maggior vigore dalla pellicola è il messaggio. Un messaggio che non apre nessun vaso di Pandora (essendo stato quest’ultimo già scoperchiato da diverso tempo), bensì obbliga tutti coloro i quali non si siano voluti arrendere alle evidenze della storia a dissotterrare la testa dalla sabbia, guardarvi dentro e fissare negli occhi i mostri che nasconde.

Il centro nevralgico del lungometraggio è rappresentato dal ruolo di oscuro burattinaio che Cheney recitò nella macchinazione della guerra in Iraq. Un conflitto tremendo e sanguinoso, che non solo condusse alla morte – tra militari e civili – un milione di persone, ma fu anche l’apripista della futura destabilizzazione del Medio Oriente; una scintilla che favorì la nascita e la proliferazione dello Stato Islamico e che quindi, in maniera nemmeno troppo indiretta, semina orrore e distruzione ancora oggi.

 

Giustizia internazionale arbitraria

Il clima di instabilità politica generato dalla destituzione di Saddam Hussein, la crescita della popolarità di al-Zarqawi, l’inasprimento del conflitto infraislamico tra sciiti e sunniti e le ragioni di opportunità energetica che spinsero gli USA ad attaccare l’Iraq sono tematiche analizzate con grande lucidità da McKay; così come il supino sostegno offerto da quella che doveva essere l’opposizione dell’epoca (Hillary Clinton) o da altri leader internazionali (Tony Blair). Tutti fatti che obbligano lo spettatore a porsi degli inquietanti interrogativi.

L’ex primo ministro britannico Tony Blair

Il riferimento non va tanto all’annosa questione della perpetua mancanza di una “Norimberga” per i crimini di guerra perpetrati dagli imperialisti. La giustizia internazionale è ormai una conclamata farsa basata sul principio del due pesi, due misure e se gli esportatori di democrazia – stracolmi di buoni propositi – non hanno subito un processo dopo l’ammissione di colpevolezza di Blair (“ il programma di riarmo non esisteva nella forma che noi avevamo pensato… mi scuso per il nostro errore nel capire cosa sarebbe accaduto una volta rimosso il regime”), la causa è persa in partenza.

 

Il rifiuto ad oltranza

Il presidente siriano Bashar al-Assad sta sperimentando da 8 anni le conseguenze della destabilizzazione dell’Iraq

Ciò su cui urge soffermarsi piuttosto, è la diffusa assenza di coscienza critica. La popolazione occidentale pare afflitta da una generale indisponibilità a mettere in discussione l’operato dei propri leader, anche di fronte alle più marchiane evidenze; quasi come se il rifiuto e la negazione ad oltranza fossero anticorpi contro il complottismo, anziché mera esibizione di disonestà intellettuale. E persino nei rari casi in cui si pronuncia un mea culpa, accettando l’amara realtà, questo non serve da lezione. Come dimostra il supporto dogmatico ed incondizionato ostentato da intellò ed opinione pubblica, ogniqualvolta  venga puntato il dito verso il presunto dittatore di un paese non allineato. Gheddafi, Assad, Kim, Maduro: tutti nello stesso calderone, senza porsi troppe domande.

Per tutti questi motivi, il film di Adam McKay è una piccola gemma pedagogica. Una lezione che ci ricorda come là fuori ci siano persone che dileggiano terrapiattisti e No Vax (etichettandoli come creduloni o analfabeti funzionali), ma dopo 15 anni si bevono ancora la narrazione ufficiale della guerra in Iraq e l’esistenza delle armi chimiche di Saddam.

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Di Filippo Klement

Classe 1990, ha studiato giurisprudenza, a latere un vasto interesse per la storia contemporanea e la politica.

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