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Hannah Arendt

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Abbiamo assistito ad una proiezione del film Hannah Arendt, pellicola che è rimasta nei cinema soltanto nella giornata di ieri e nel giorno antecedente.

Il film affronta la vita della scienziata politica Arendt partendo dal presente della sua maturità, negli anni Settanta, e affrontando, con alcuni flashback, la giovinezza della celebre autrice del trattato Le origini del totalitarismo (1951). Giovinezza che ruota attorno all’Università di Margburgo in Germania, dove conobbe a lezione e divenne altresì amante del professor Martin Heidegger.
Arendt, ebrea, prima di fuggire per l’America con un visto (senza passaporto: resterà apolide per 18 anni), era stata internata in un campo di concentramento in Francia. Siamo negli anni Quaranta.

Il film a nostro giudizio lascia aperte due possibili interpretazioni: una sostanzialmente a favore dell’onestà intellettuale e della facoltà di indagare il pensiero inverate da Arendt, ed un’altra che impone un freno al pensiero qualora questo possa essere travisato, letto con gli occhi della sofferenza ed aborrito dai più diretti interessati all’argomento indagato.
Nel presente ruota tutto attorno alla vicenda del processo Eichmann, ma nel passato il lungometraggio è incentrato sull’intrigo sentimentale ed intellettuale con Heidegger, pensatore che molti hanno considerato come troppo invischiato con il nazionalsocialismo. In alcune parti del film alcuni accusatori (invero già amici) della Arendt le muovono la critica di essersi lasciata abbindolare dai tedeschi, che l’avrebbero tradita e di non riuscire ad accettare ciò. Ecco perché la critica feroce, e forse troppo svilita dal film, nei confronti di Arendt, è stata quella di aver tradito il suo popolo. Ella si smarcherà da tali accuse dicendo di non riporre la sua fiducia in un popolo in particolare, ma solo nelle relazioni umane e nelle sue amicizie, per quanto ne perderà molte a causa della professione di indagatrice del pensiero, appresa dal suo maestro.

Le idee di Arendt riguardo ad Eichmann, la famigerata espressione “banalità del male“, le attireranno gli astii della comunità israelitica mondiale, eppure ella continuerà con la sua teoria, attaccata da quanti l’hanno semplicemente bollata come la malsana elucubrazione di un’intellettualoide europea dedita, per usare un’espressione ora in voga, alle seghe mentali.
Per quanto chi non si diletti di filosofia possa considerare ogni pensiero non allineato ed un minimo più astratto come una “sega mentale”, è possibile assumere che gli addetti del mestiere vogliano intendere qualcosa di diverso da quello che, ferocemente, può apparire di primo acchitto. Così per le parole di Arendt, lucida pensatrice, che hanno acceso la miccia delle critiche e delle controversie relative al suo metodo ed alla sua stessa persona.

Il vaso di Pandora è stato scoperchiato da un articolo di Arendt per il New Yorker, richiestole dal direttore come corredo del processo Eichmann che la politologa era andata a seguire a Gerusalemme. Ella, oltre ad analizzare intimamente i comportamenti e le sconcertanti lucidità e banalità della difesa di Eichmann, nutre dei dubbi sia sulla legittimità del tribunale (dubbi sollevati ferocemente anche dal marito di Hannah, il marxista Blücher), sia soprattutto sulla politica dell’allora premier Ben Gurion, che volle fare un “processo alla storia”.

Purtuttavia, a discredito di quelli che le diedero addirittura dell’avvocatessa del diavolo e della nazista, ella gioì in tutta la sua debolezza umana nel sapere del boia impiccato. Nell’articolo in questione, a processo in corso, Arendt scatena l’ira del popolo eletto parlando dei Capi ebrei nei campi di concentramento, dicendo che senza la loro azione lo sterminio non avrebbe probabilmente assunto le proporzioni numeriche così estreme che ha poi raggiunto. Com’è facile immaginare le accuse ad Hannah Arendt di dare la colpa del proprio sterminio allo stesso popolo ebraico si sono sprecate. Non è ciò che Arendt intendeva, come spiegò in una dichiarazione pubblica sollecitata dalle reazioni sproporzionate e spesso inconsulte. Ben trasposto in pellicola e toccante il discorso, in una delle varie università americane in cui insegnò, in cui spiega le sue ragioni in proposito.

Arendt parlava della debolezza dell’uomo, del piegarsi agli ordini e dell’innata varietà del genere umano, dove in ogni razza e raggruppamento di persone vi sarebbe qualcuno pronto a tradire per salvarsi, dove un boia spietato non si porrà mai una domanda in fase di adempimento dei suoi doveri; anche quando questi comportino il malcelato disprezzo e l’abominio della vita umana, financo alla privazione della ragione. Concetti che possono apparire astratti, forse, ma che in realtà sono profondi ed irrinunciabili per chiunque voglia avere un pensiero lucido da cui iniziare un’indagine storica, politica o sociologica.

 

« Ogni cultura ha il suo proprio criterio, la cui validità comincia e finisce con esso. Non vi è alcuna morale umana universale »

(Oswald Spengler da Der Untergang des Abendlandes, I, 55)

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Di Redazione Elzeviro.eu

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