Le discusse dichiarazioni del papa emerito sul rapporto tra pedofilia e ’68, offrono lo spunto per una riflessione più profonda su quel movimento e sulle posizioni – incomprese – di Benedetto XVI.
E pensare che, dell’inizio del mese di Aprile, tutto si può dire fuorché sia stato un periodo scarno di eventi da prima pagina: i tumulti di Torre Maura, il caos Brexit, i repentini capovolgimenti di fronte nello scacchiere libico, il colpo di stato in Sudan e per finire l’arresto di Julian Assange nella giornata di ieri. Eppure – magari gravitando nel campo più circoscritto della teoria e del commento – non sarebbe eretico sostenere che, quelli appena trascorsi, siano stati giorni caratterizzati dalle dichiarazioni papali. O, per meglio dire, dalle dichiarazioni dei due papi. A meno di una settimana dalle azzardate esternazioni di Bergoglio in materia di immigrazione (grande novità) e di mafia, a scuotere l’animo di opinionisti ed appassionati di dinamiche confessionali ci ha infatti pensato Joseph Ratzinger.
In un testo inedito di 18 pagine, che segue il vertice con i presidenti delle conferenze episcopali, il papa emerito affronta l’annoso problema della pedofilia all’interno della Chiesa, imputando alla rivoluzione culturale del ’68 una responsabilità determinante in proposito. Per Benedetto XVI
i precedenti standard normativi relativi alla sessualità sono collassati ed è nata una nuova normatività… che ha avuto effetti sulla successiva formazione dei preti
e sull’approccio eccessivamente garantista della Chiesa di fronte agli abusi dei suoi membri; in sostanza, la liberalizzazione estrema dei costumi sessuali avrebbe causato una sorta di anarchia normativa della morale (con conseguente contagio in seno agli ambienti ecclesiastici dopo il Concilio Vaticano II), portando la pedofilia ad essere ”diagnosticata come permessa ed appropriata”.
L’individualismo sessantottino
Una chiave di lettura sicuramente un po’ spigolosa, specie nella parte in cui sembra affibbiare al ’68 una responsabilità diretta e consapevole in tema di molestie su minori, ma che, nella sua consueta lucidità dialettica ed intellettuale, stimola una riflessione più che opportuna sulla spirale di individualismo e nichilismo costante generata da quel movimento.
Un movimento che ha portato in dote ai suoi posteri una prevalenza dell’Io sulla comunità, slegandolo da responsabilità e doveri e producendo una logica, quanto inevitabile, metamorfosi della morale: sempre più legata al bisogno personale e sempre meno alle necessità valoriali collettive, lette a prescindere come gabbia della propria espressività.
Un processo che, vista l’inevitabile interdipendenza del fronte della moralità con quello della legalità, ha prodotto anche un interesse crescente verso i diritti civili (talvolta vacui ed effimeri) di qualsivoglia minoranza ed un’attenzione inversamente proporzionale verso i diritti sociali.
Non è un caso che tutta la filiera di opinionisti, germogliati nel brodo di coltura progressista figlio del ’68, stiano digrignando i denti di fronte alle dichiarazioni del papa emerito, invitandolo a tornare nel letargo degli anni passati.
Inviti che, peraltro, non lesinavano nemmeno quando Ratzinger era ancora in carica e che, a tal proposito, offrono un ulteriore spunto di riflessione: com’è possibile che per anni dem e progressisti abbiano denunciato le ingerenze – vere o presunte – dei passati pontefici, asserendo come questi minassero la laicità del dibattito politico, mentre il papa più politicizzato di sempre (Bergoglio) è attualmente assurto al rango di eroe? Forse perché il problema non era l’ingerenza del pontefice nel dibattito politico, bensì la semplice esigenza di un Santo Padre che condividesse i loro valori e le loro posizioni?
Il riformismo reazionario (ed incompreso) di Benedetto XVI
Eppure, per quanto ai suoi detrattori filosessantottini possa sembrare inconcepibile, il tanto vituperato Benedetto XVI ha offerto un contributo comunicativo agli ultimi del pianeta (quelli che godono della costante attenzione del clero liberal) di gran lunga più efficace e pragmatico rispetto al suo successore: dapprima con la, seppur timida, storica apertura all’uso del profilattico e successivamente con la teorizzazione del “diritto di non migrazione”.
Una linea in totale antitesi con il Francesco pensiero, ma che fa luce su un caposaldo completamente ignorato dall’attuale retorica papale, ovvero che il benessere spirituale non possa che nascere da una condizione di stabilità. Stabilità che deve essere anzitutto economica, in modo tale da rendere l’eventuale migrazione una scelta ponderata, anziché il frutto forzato di necessità e disperazione.
Come si diceva poc’anzi, un contributo comunicativo decisamente più efficace e pragmatico. Peccato che, per comprenderlo, sarebbe necessario fare un passo indietro rispetto alla summenzionata dottrina individualista (che risolve ogni problema con la libertà di espressione e di movimento) e ripristinare un’oncia dell’ormai smarrita morale comunitaria.