di Elvis Zoppolato
Era il 28 marzo 2018 quando uscì la notizia dell’isolamento di Julian Assange, il fondatore di Wikileaks che dal 2012 vive nell’ambasciata ecuadoriana di Londra per sfuggire a un mandato di arresto delle autorità britanniche.
La possibilità di usare internet, di telefonare e di ricevere ospiti gli erano stati tolti per aver violato un accordo stretto alla fine del 2017 che gli proibiva di usare i social network per interferire negli affari degli altri paesi.
Il filosofo croato Srecko Horvat e l’attivista Pamela Anderson
ne hanno parlato al Documentary film festival di Copenhagen venerdì 29 marzo, durante un incontro dedicato alla politica e all’attualità.
Srecko Horvat (36 anni), già autore di diversi libri – ricordiamo in particolare “The radicality of love” e “Che cosa vuole l’Europa?” scritto assieme a Slavoj Zizek – è il co-fondatore, assieme all’ex-ministro delle finanze greco Yanis Varoufakis, del movimento paneuropeo Diem25. Durante la serata di Copenhagen ricorda così l’amico Julian:
“La sua voce, qualsiasi cosa possiate pensare di lui, e potete pensare molte cose – io stesso penso molte cose di lui, ci siamo scontrati molte volte ma ci siamo anche divertiti un sacco -, ma a prescindere da tutto ciò che potete pensare… la sua voce manca”.
La parola passa a Julian Assange, in videoconferenza registrata, che riassume così la situazione attuale dell’Europa:
il problema dell’Europa è la sua mancanza di integrazione, la sua mancanza di unità. Ma c’è anche qualcos’altro. C’era una volta un sogno, un sogno per cosa l’Europa potesse essere: più di una realtà strategica, più di una realtà economica. Quello è un sogno che l’Europa ha perso, e la mancanza di quel sogno sta producendo la frammentazione attuale e l’incapacità dell’Unione di gestire questa situazione.
Assange non è più sicuro nell’Ambasciata dell’Ecuador
Poi la Anderson, attivista sin dai tempi dell’adolescenza ed ex-compagna di Assange, spiega come vi sia in atto una vera e propria propaganda contro di lui. Assange si rifugiò nell’ambasciata ecuadoriana di Londra nel 2012 per sfuggire a un mandato d’arresto in Svezia. È accusato di stupro nei confronti di due donne, ma le accuse sono tutt’altro che confermate. La Svezia da allora ha detto che ha rinunciato a perseguirlo
ma è opinione di molti che si tratti solo di un complotto politico: Assange teme che se uscirà dall’edificio verrà arrestato ed estradato negli Stati Uniti per essere interrogato su WikiLeaks.
Come dice Horvat, potete pensare qualsiasi cosa di lui, ma c’è una cosa che bisogna riconoscere: il ruolo della verità nella storia. L’ermeneutica filosofica novecentesca si è impegnata comprensibilmente nel sostenere che non esistono fatti, ma solo interpretazioni (nel senso che non esistono fatti totalmente oggettivi e puri rispetto alla soggettività dei singoli, ma esistono fatti che noi percepiamo e trasmettiamo al prossimo a partire dal nostro particolare modo di vedere le cose, dai nostri valori, dalle nostre intenzioni, e in quanto tali sempre soggetti alla nostra particolare interpretazione della vita).
Ciò che bisogna aggiungere però è che la trasparenza di questi fatti
ovvero il modo in cui vengono trasmessi, è una variabile importante nel processo di consapevolezza attraverso cui formiamo la nostra opinione sulle cose. La distorsione e manipolazione degli stessi, infatti, veicola la nostra percezione della realtà, la quale lungi dall’essere un dato naturale e prestabilito, è un’entità mutevole che noi costruiamo di volta in volta. E chi ha il potere di costruire, ha anche il potere di creare – di creare la propria realtà e di imporla a tutti gli altri, senza che questi se ne accorgano. La realtà costruita diventa la realtà percepita, e ciò che in principio era deliberata imposizione diviene la norma.
La storia viene scritta e riscritta costantemente, e a spuntarla alla fine è l’interpretazione del vincitore. Esistono casi specifici che rappresentano perfettamente questa ambiguità storica; in Italia ne abbiamo uno davvero paradigmatico in questo senso, ovvero Domenico Lucano. Arrestato lo scorso 2 ottobre con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, lo stesso Domenico Lucano è stato poi candidato, assieme al comune di Riace, al premio Nobel per la Pace. Com’è possibile che la stessa figura sia allo stesso tempo un fuorilegge e un candidato al premio pacifista più importante del mondo?
Non diverso è il caso di Julian Assange, accusato di spionaggio negli Stati Uniti (accusa che può costargli l’ergastolo) e allo stesso tempo candidato al Nobel per la Pace nel 2011.
È davvero tutto così relativo e interpretabile? Non esiste un “centro di gravità permanente” attraverso cui sia possibile giudicare e interpretare costantemente gli eventi e la realtà?
Eppure nessuno di noi metterebbe mai in discussione l’esistenza della Seconda Guerra Mondiale e del numero di morti da essa provocati. Nessuno di noi avrebbe il coraggio di sostenere che sia stata la Polonia ad invadere la Germania, e non viceversa. Nessuno di noi oserebbe seriamente negare l’evidenza dei cambiamenti climatici dovuti al riscaldamento globale. Perché?
Perché esistono degli spazi totalmente liberi e indipendenti dalla politica che hanno fatto della ricerca indiscriminata della verità la loro ragion d’essere. Perché esistono persone che tutti i giorni sacrificano se stessi e il proprio tempo per salvaguardare la memoria storica dall’arbitrio dei poteri totalitari. Perché esiste la ricerca libera, trasparente, documentata e documentabile che espone costantemente i propri risultati alla critica altrui, alla messa in discussione, alla verificabilità e alla contestazione da parte di terzi.
A un certo punto bisogna sospendere la legittimità del proprio scetticismo e avere fiducia
fiducia che non sia tutto marcio e a servizio del capitale, che ci siano ancora degli esperti il cui parere sia davvero affidabile, che ci siano ancora delle persone che credono nel bene comune. Perché senza questo atto di fiducia la vita di tutti i giorni sarebbe impossibile.
Quotidianamente noi deleghiamo la nostra responsabilità a qualcun altro, senza neppure rendercene conto – pensate a quante volte attraversiamo con il semaforo verde senza guardare, dando per scontato che dall’altro lato il conducente si fermi. La vita in società si basa su questo patto reciproco non scritto, ma perché funzioni è necessaria una cosa fondamentale: la trasparenza dell’informazione. Altrimenti ciò che si viene a perdere è la fiducia: nel prossimo, nelle istituzioni, nella legge.
E allora davvero il parere di tutti vale la stessa identica cosa, cioè nulla. Si perdono le distinzioni: tra chi è competente e chi non lo è, tra chi è preparato e chi no, tra le persone oneste e gli avvoltoi di passaggio. Perché il consenso, oggi, è più facile comprarselo che guadagnarselo – si veda il caso del Brasile, dove per la campagna elettorale che ha portato alla vittoria di Bolsonaro sono stati spesi 12 milioni di real (2.8 milioni di euro) da parte di imprenditori a lui favorevoli per finanziare i servizi di messaggistica contro Haddad, suo diretto avversario.
Ma per recuperare quella fiducia di cui non possiamo fare a meno, è necessario che vi sia la massima trasparenza possibile nelle informazioni.
Perché solo così è poi possibile verificarle, criticarle, discuterle
e sottoporle al vaglio della ragione. Solo così si possono creare gli spazi idonei a questo tipo di discussione, che sono tanto le università e gli istituti di ricerca, quanto gli infiniti spazi della vita sociale in cui abbiamo la possibilità di scambiare con gli altri le nostre opinioni, in modo libero da ogni coercizione esterna, dai blog ai tavolini del bar, dai centri sociali al Teatro Bremen di Copenhagen.
È a partire da questo contesto che bisogna dunque giudicare le azioni di Julian Assange. Le centinaia di migliaia di informazioni rivelate da WikiLeaks sono state come una bomba che rischiava di far saltare per aria il sistema. Notizie di una gravità allucinante che mostrano la verità nuda e cruda così come essa si presenta alla storia. Notizie che hanno cambiato il mondo dell’informazione e il modo di fare informazione. E se per conoscere la verità dobbiamo rinunciare al sistema così come lo conosciamo, ben venga la sua esautorazione. Ciò a cui davvero non possiamo rinunciare è l’intrinseca autorevolezza della verità.
“First they came for Assange”.
Leggi anche:
Come la CIA ha violato i sistemi Apple e la privacy di tutti