Ogni volta che qualcuno tira fuori il termine “boomer” come se contasse come un’obiezione, o come un epiteto esplicativo, hai la prova provata di essere di fronte a un cretino.
di Andrea Zhok
Non c’è bisogno d’altro: è proprio una patente, un’autodichiarazione. Il modellino mentale tacito qui all’opera è invero, incredibilmente stantio: è quello che suppone che la discriminazione “vecchio” – “nuovo” conti come un giudizio di qualità.
C’è sullo sfondo, sempre inconsapevolmente all’opera, tutto il “nuovismo” compulsivo e il “progressismo” ingenuo che caratterizza la modernità liberale. Tutta l’ideologia portante della contemporaneità dipende da questo schema rigorosamente vuoto, dove si “parte alla volta del futuro”.

E siccome ciò che domani sarà realtà dipende da ciò che oggi è potere, la moralità associata a questo atteggiamento spirituale è esattamente quella della legge del più forte e della venerazione del vincitore pro tempore. C’è inoltre qui all’opera il frazionamento in gruppi generazionali, funzionale alla frammentazione sociale e alla creazione delle nicchie di mercato.
Si assume e ribadisce che, non solo tra generazioni diverse ci sia di fatto un abisso incolmabile, ma che ciò va rivendicato, che debba essere così (altrimenti come riusciresti a vendere jeans strappati come nuovi?).
C’è infine, e soprattutto, la dichiarazione di disinteresse rispetto alle opinioni “vecchie”, quelle non ancora plastificate a lucido nella bolla dei coetanei, che per essere intese non richiedono sforzi perché rispecchiano la stessa bolla pubblicitaria in cui sono tutti cresciuti.