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A proposito del “manifesto dei sovranisti”

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La settimana passata quindici partiti europei hanno firmato una comune “carta dei valori”, ribattezzata dagli organi di informazione come “manifesto dei sovranisti”.

di Andrea Zhok

Nel testo, in ordine sparso: viene rivendicata l’idea di un’Europa «rispettosa dei popoli e delle nazioni libere», si giudica inaccettabile che «i popoli siano sottomessi all’ideologia burocratica e tecnocratica di Bruxelles che impone norme in tutti gli ambiti della vita quotidiana».

Si osserva poi che «le nazioni si sentono lentamente spogliate del loro diritto ad esercitare i loro legittimi poteri sovrani», si chiede il «rispetto dell’eredità giudaico-cristiana dell’Europa», e infine si riafferma la «convinzione che la famiglia è l’unità fondamentale delle nostre nazioni».

Questo manifesto ideologico è mirato a dare ai cosiddetti “partiti sovranisti” un’omogeneità spendibile sul piano elettorale, sia sul piano interno che su quello europeo. Ci sono tuttavia, credo, due punti di vista da cui questo manifesto può essere valutato.

1) Da un lato questo manifesto è stato salutato da molti esponenti del centrosinistra – in Italia da Letta – come la prova provata dell’incompatibilità delle “destre sovraniste” con i “valori europei”. Curiosamente le obiezioni che si sono sollevate sembrano concentrarsi esclusivamente sulle ‘cattive compagnie’, piuttosto che sui contenuti espressi.

In Italia si rimproverano Salvini e Meloni di accompagnarsi ad Orban e Le Pen, altrove si fa il gioco inverso, basandosi efficacemente su meccanismi di discredito mediatico della stampa interna. Conformemente con lo stile dell’odierna politica, sui contenuti si sorvola.

In effetti, un documento che – testo alla mano – sembra chiedere rispetto per le principali religioni monoteistiche praticate in Europa, per le nazioni europee e per la famiglia è difficile da presentare come inaccettabile e inaudita mostruosità.

Non che non esista chi pensi esattamente questo. Esiste realmente una parte dell’opinione pubblica per cui “Dio, Patria e Famiglia” sono percepiti come il Male.

Si tratta di gruppi significativamente rappresentati tra le élite cosmopolite, nella stampa liberale, e in alcuni ambiti progressisti, dove la felicità è immaginata come la possibilità di sguazzare in una società liquida di individui fluidi, in un perenne presente senza passato (eccezion fatta per il passato monetizzabile delle proprie rendite).

Tuttavia, nonostante l’ampio spazio culturale lasciato a queste istanze, esse rimangono minoritarie a livello popolare, e proprio in ciò sta la vera preoccupazione del centrosinistra (e dei ‘moderati’) rispetto a quel “manifesto dei valori”: quella mossa è percepita come un appello valoriale potenzialmente dotato di seguito popolare.

Peraltro, che le destre da decenni abbiano un seguito soprattutto popolare, fondato più su fattori di identificazione ideal-valoriale che su prove di buon governo, è abbastanza evidente. In quest’ottica, in una prospettiva di spostamento dei flussi elettorali, la preoccupazione dei partiti di centro-sinistra (ma anche dei moderati di destra) è comprensibile.

2) C’è però anche, forse soprattutto, un secondo lato da cui la cosa merita di essere vista. Questa mossa da parte delle “destre europee” non è davvero una grande novità. Il fatto di giocare la carta della conservazione culturale in un contesto liberale è un evergreen, dall’Action Française di Maurras al conservatorismo sociale dei Reagan e delle Thatcher.

Si tratta di quella che altrove ho chiamato una “falsa opposizione” che caratterizza l’epoca del trionfo liberale: a fronte dello smantellamento delle identità sociali, ideali e personali implicito nello sviluppo della ragione liberale sorge ciclicamente come apparente ‘correttivo’ una linea “reazionaria” che fa il gesto di ripristinare o conservare residue identità preliberali.

Questa mossa funziona perché dà l’impressione di andare incontro a problemi reali generati dallo sviluppo liberale, prendendo verso di essi una posizione valoriale critica e di buon senso. Il problema, tuttavia, è che siamo in effetti davanti ad una falsa opposizione tutta interna alla ragione liberale.

Infatti gli stessi partiti che apparentemente si stracciano le vesti per difendere il Cristianesimo, la Patria e la Famiglia, sostengono senza freno e ritegno una concezione mercatista della società e sono i più assidui promotori di una concezione di stato minimo, con tassazione minima (es. Flat Tax) e deregolamentazione del mercato.

I nostri “promotori dei valori cristiani” rimuovono in perfetta cattiva coscienza il fatto che non c’è nessuna compatibilità possibile tra la totale negoziabilità richiesta dai meccanismi di mercato, dove tutto ha di diritto un prezzo, e la non negoziabilità di valori cristiani (e umani).

Rimuovono il fatto che non c’è meccanismo più erosivo di ogni istanza trascendente e sacra dell’individualismo mercatista, e che, per dirla con parole antiche, “Non potete servire insieme Dio e Mammona.” (Mt6, 24)

Con la stessa cattiva coscienza questi “difensori della patria” fingono di non vedere che per la sovranità dei meccanismi di mercato nessuna sovranità nazionalepuò esercitarsi davvero. Le libertà di mercato, i liberi spostamenti di capitali, merci e forza-lavoro annullano le capacità operative degli stati, ne demoliscono l’autorità legale e ogni controllo sulle forme di vita della popolazione.

Parimenti i nostri integerrimi “difensori della famiglia” dimenticano che la prima fonte di disgregazione delle famiglie esistenti, e la prima causa dell’impossibilità di far esistere una nuova famiglia, sono le condizioni del mercato del lavoro: la flessibilità degli orari, l’instabilità dei luoghi, la precarietà degli impieghi, i salari di sussistenza, i tempi di lavoro che fagocitano ogni altro tempo umano e relazionale.

Così, i nostri crociati dei valori umani si mettono sul mercato politico come persone tutte d’un pezzo, con il cuore dalla parte giusta, e nel contempo vendono all’incanto al miglior offerente i “propri popoli”.

E la cosa peggiore in questo processo è che finisce per produrre un disincanto terminale in quegli stessi valori difesi a chiacchiere, che vengono identificati con una retorica formalistica e menzognera.
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