La pronuncia della Corte d’appello di Torino segnala un simbolico atto di opposizione culturale dopo decenni di indottrinamento alla precarietà.
La sentenza pronunciata due giorni fa dalla Corte d’appello di Torino è un sussulto di decenza. Si tratta di un simbolico atto di opposizione all’arroganza delle multinazionali, un gesto di ribellione nei confronti di quella classe dirigente che, negli ultimi 30 anni, ha creato terreno fertile per instillare nei giovani un approccio al mondo del lavoro decisamente masochistico.
I ragazzi identificati come “generazione millennial” sono germogliati in un humus culturale che li ha educati ad avere tanta perseveranza, tanta umiltà, ma pochissime ambizioni: il lavoro non è più quel diritto garantito a tutti su cui si fonda il primo articolo della costituzione, bensì un lusso. Pertanto, bisogna ridurre pretese e tutele, accettando di buon grado ogni tipo di cavallo donato dal generoso mercato occupazionale.
Gli ultimi decenni sono stati un continuo indottrinamento alla precarietà ed alla sua passiva accettazione -a colpi di leggi come il jobs act- secondo una logica che ha stravolto gli storici equilibri del lavoro. Chi si affaccia al mondo degli adulti, oggi, è erroneamente convinto che non esista più un rapporto di interdipendenza funzionale: il lavoratore ha bisogno del datore, mentre il datore può benissimo fare a meno del lavoratore. L’inevitabile conseguenza di questa visione distorta è stata un’accettazione supina di ogni revisione al ribasso, di ogni mancata tutela e di ogni straordinario “obbligatorio”. Per non parlare delle remunerazioni in visibilità e/o esperienza, ripetute ossessivamente come un mantra.
Non sappiamo ancora se questo fatto di cronaca processuale possa innescare o meno un effetto domino, ma vista la sua portata rivoluzionaria, lo segnaliamo con innegabile piacere.