Le nostre perplessità sulla riforma della legittima difesa non sono mai mancate, specialmente per il timore che potesse rivelarsi l’inevitabile preambolo di una pericolosissima liberalizzazione delle armi di stampo americano.
Ciò detto, i commenti visti negli ultimi giorni sono stati mediamente molto superficiali, finendo per commettere l’errore perpetuato dai magistrati per anni e anni. Lo stesso errore che ha creato terreno fertile per questa “deriva” ultrasecuritaria: l’incapacità di comprendere tanto la gravità del reato, quanto la condizione emotiva estrema alla quale viene sottoposta la vittima.
Chi vi scrive ne parla con cognizione di causa (essendosi ritrovato faccia a faccia con un malintenzionato nella propria abitazione) e vi può assicurare che si tratta di una violazione dell’intimità così profonda, da non avere spazio per sentimenti diversi da quelli di rabbia e terrore.
Troppo spesso, nelle aule giudiziarie si è razionalizzato in maniera drammaticamente ipocrita su una situazione nella quale la razionalità non è contemplata, finendo per omettere un aspetto ben più importante della squisita proporzionalità giuridica: quello del rapporto di causalità.
Se io commetto un gesto estremo – che magari potrebbe anche non essere più necessario – è solo perché la prepotenza di un’altra persona mi ha messo nella condizione di trasformarmi un concentrato di adrenalina, privo di qualsivoglia lucidità.
Gli strumenti per non ricorrere ad un comma esemplificativo prima e ad una riforma reazionaria poi, erano già presenti nel testo dell’articolo 52 e sarebbe stato sufficiente non utilizzare cavilli cervellotici, pur di negare la proporzionalità tra offesa e difesa in circostanze lapalissiane.
Se si è arrivati a questo epilogo indesiderato, anziché manifestare indignazione, il settore della magistratura dovrebbe farsi un profondo esame di coscienza ed ammettere la propria complicità.
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