Nessun risentimeno contro l’ecologismo. Quella per l’ambiente rappresenta una battaglia sacrosant, che nasconde al suo interno una grande criticità: non si può essere ecologisti ed allo stesso tempo a favore della globalizzazione.
Autore: Antonio Di Siena
Come la stragrande maggioranza di quei partiti e dei manifestanti, giovani o vecchi che siano, che hanno partecipato entusiasti ai cortei in difesa del pianeta che difendono la visione di un mondo senza confini in cui lo Stato (se proprio deve esistere) si limiti a garantire le elezioni e i diritti civili. In altre parole preferendo un mondo globalizzato, politicamente ed economicamente.
Che è esattamente lo stesso modello cui aspira l’economia liberista. La stessa che, da un mondo con poche leggi e senza barriere, trae profitti miliardari a favore di pochissimi. Ora, al centro degli interessi dell’economia liberista ci sono solo due cose: il libero mercato e l’impresa privata. Che pretendono di poter fare business ovunque e su qualsiasi cosa. Spostandosi continuamente da una parte all’altra del globo senza alcuna regola che li limiti. Per conseguire l’unica cosa che interessa: il profitto. Acquistando le materie prime lì dove costano meno, spostandole nei luoghi in cui la forza lavoro che le trasforma in merci è più conveniente e infine collocandole sui mercati più profittevoli.
Per produrre di più bisogna consumare di più
Una logica che al livello più basilare ritiene che siccome i fagiolini egiziani (come il grano ucraino o le olive tunisine) costano meno di quelli italiani, allora compro quelli e li rivendo in Italia. E invece quelli che produco qui li spedisco in Germania (o in Canada) dove me li pagano di più. E al livello più complesso significa produzione illimitata di miliardi di prodotti di ogni genere.
Perché l’unico obiettivo di questo modello è produrre sempre di più per garantire sempre più guadagni. E per produrre in continuazione servono sempre più energia e sempre più risorse. Il che vuol dire sfruttamento intensivo e crescente del pianeta, nei modi più economici e quindi più inquinanti. Significa milioni di container che si spostano ogni giorni su navi e aerei cargo, di cui ne bastano meno di 20 per inquinare quanto tutte le auto del mondo messe insieme, per spostare miliardi di robaccia inutile prodotta ogni anno. Che se non viene acquistata grazie al bombardamento della pubblicità finisce direttamente nella spazzatura.
Un ritorno all’economia di sussistenza
Per inquinare molto meno, per una rivoluzione green realmente efficace serve mettere in discussione non solo le modalità di produzione. Ma soprattutto i principi che ne sono alla base. Non solo il riciclo quindi. Non solo lotta alla plastica. Non solo agricoltura e allevamenti sostenibili. Ma un’intera economia che da globale e di mercato diventi di sussistenza. Orientata quindi a importare solo il necessario ed esportare solo quello che avanza.
E non parlo solo di generi alimentari. Ma anche di vestiti, elettrodomestici, tecnologia e tutto il resto. Parlo di qualunque cosa possiate trovare fra gli scaffali di un ipermercato.
Per cambiare radicalmente un modello così complesso serve riorganizzare completamente la produzione, il mercato, le modalità e i tempi di consumo. È un’opera di portata gigantesca ed è impensabile credere di poterla realizzare attraverso un movimento di massa globale che si oppone allo Stato. O si crede che sia davvero efficace agire in veste di consumatori che al massimo possono organizzare campagne di boicottaggio?
Il ruolo dello Stato
In un mondo con miliardi di poveri ci sarà sempre un mercato per le merci a basso costo, le bottiglie di plastica o gli allevamenti intensivi. E quindi ci sarà sempre qualcuno in grado di sfruttare questa condizione e di trarne profitto. L’unica via per compiere una rivoluzione di questo tipo è attraverso il massiccio intervento dello Stato che si faccia carico, attraverso le sue potestà, di:
- Disciplinare rigidamente il mercato, la proprietà e la gestione delle risorse;
- Gestire le grandi imprese nei settori strategici sottraendole alla mera logica del profitto privato;
- Riconvertire la produzione industriale in direzione eco-compatibile;
- Promuovere le piccole realtà produttive locali, finanziando la piccola e media impresa e proteggendo il mercato interno dalle merci estere anche con i dazi;
- Vigilare sulle filiere produttive e sulla qualità dei prodotti;
- Pianificare la produzione secondo le necessità della domanda e non in base a quelle dell’offerta;
- Tutelare il mercato del lavoro dalla inevitabile e momentanea disoccupazione con ammortizzatori sociali e ricollocazioni;
- Promuovere politiche di aumenti salariali per far fronte all’inevitabile aumento dei prezzi delle merci.
Tertium non datur: o pubblico o privato
Non vi piace l’idea perché vi hanno raccontato che puzza di sovranismo? Allora tenetevi il privato e le inutili organizzazioni internazionali che servono solo a svuotare il potere statale, per consentire alle multinazionali di saccheggiare impunemente le risorse delle popolazioni indifese.
Perché se non c’è lo Stato non c’è il pubblico. E se non c’è il pubblico c’è il privato. Non c’è una terza possibilità. Ecco perché per salvare il pianeta serve rafforzare lo Stato. L’unico che può realmente farsi carico delle istanze ecologiste che altro non sono che rivendicazioni politiche. Rafforzare lo Stato ed orientarlo in una direzione ecologica e quindi di equità e giustizia sociale. Questa è la strada. Il resto sono chiacchiere. Ecologiche certo, ma sempre chiacchiere restano.
Revisione ed impostazione grafica: Lorenzo Franzoni