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La guerra ibrida a colpi di spread

Mario Draghi e Pierre Moscovici a colloquio.

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In seno all’Unione Europea si sta combattendo la più contemporanea tra tutte le guerre. Un conflitto in cui strumenti finanziari e dichiarazioni a borse aperte, sostituiscono le armi.

 

Anche oggi il mattino italiano non ha avuto l’oro in bocca. Il risveglio del nostro paese infatti, è stato accompagnato da un buongiorno tutt’altro che consolatorio, rappresentato dai dati dell’Istat sulla (mancata) crescita del PIL nel terzo trimestre del 2018: un arco temporale stagnante, nel quale, a fronte di un buon andamento dei servizi e dell’agricoltura, c’è stato un consistente rallentamento della produzione industriale.

Una notizia che -pur non compromettendo la possibilità di un’immediata ripresa nel trimestre successivo- ha naturalmente creato una visibile effervescenza sui mercati, portando lo spread a superare un’altra volta la soglia dei 300 punti e generando negli addetti ai lavori una certa perplessità circa le previsioni di crescita stimate dal governo gialloverde.

 

Lo spread come arma

Quello su cui vale la pena interrogarsi tuttavia (oltre alle motivazioni che hanno spinto i feticisti dello spread a tacere negli unici giorni in cui questo è calato), è quale sia stato il rapporto di causalità alla base della prorompente impennata delle settimane precedenti. In buona sostanza, se l’odierno aumento del differenziale tra bund tedeschi e btp italiani è dovuto ad un dato statistico oggettivo ed inconfutabile, cosa ha provocato lo stesso effetto fino a venerdì scorso?

La risposta è di facile lettura, nonché molto più banale di quanto si possa immaginare. Molto semplicemente, senza bisogno di scomodare nessuna contorta teoria macroeconomica, è in atto una guerra. Esatto, in seno all’istituzione comunitaria che si bea di aver garantito la pace nel vecchio continente per più di 70 anni (pur essendo stata fondata solo nel ’57), si sta combattendo il più contemporaneo tra tutti i conflitti: ibrido, senza eserciti e con la finanza in sostituzione delle armi.

 

Le forze in campo

Jean-Claude Juncker. Il suo mandato come Presidente della Commissione è ormai agli sgoccioli.

E quali sarebbero gli schieramenti in campo? Gli stessi che nell’arco dell’ultramillenaria storia di questo pianeta hanno caratterizzato più le guerre civili (o di liberazione), che non quelle combattute tra le grandi potenze sul suolo internazionale: il vecchio ordine costituito, contro il nuovo che tenta di avanzare e di ribaltare lo status quo.

Il campo di battaglia vede i vertici dell’Unione Europea costretti a fronteggiare un clima di ostilità e crescente sfiducia in tutti gli stati membri, come evidenziato dagli scoraggianti dati delle urne e delle tornate referendarie degli ultimi due anni; dati che, laddove non abbiano condotto ad una vittoria dei movimenti -cosiddetti- populisti, hanno comunque evidenziato una violentissima picchiata negli indici di gradimento delle formazioni politiche affini all’attuale dirigenza comunitaria. Per capirci meglio, quelle moderate e liberiste.

 

L’élite agli sgoccioli

Si tratta di un trend, che, qualora non dovesse essere invertito, porterà ad una agevole vittoria delle forze sovraniste ed euroscettiche, con una conseguente maggioranza -schiacciante- all’interno del Parlamento Europeo. Senza considerare la scadenza del mandato dei membri della Commissione (concomitante con quella della legislatura del Parlamento), la quale sarà dunque rinnovata in un contesto politico completamente stravolto ed il suo Presidente, chiamato ad ottenere la maggioranza assoluta dell’aula parlamentare.

Uno scenario potenzialmente agghiacciante per quelli che la narrazione anti-Bruxelles ha ribattezzato come eurocrati; i quali, se si osserva con maggiore attenzione, sono spesso accomunati da un dettaglio che rende le previsioni ancor più sconfortanti. Juncker, Moscovici, Dombrovskis, Oettinger e soci infatti, nelle rispettive patrie sono politicamente al capolinea. Una situazione che li obbliga a tirare fuori unghie ed istinto di sopravvivenza, se vogliono ribaltare un destino che pare già scritto.

 

Il Governatore della BCE Mario Draghi.

Il peso delle parole (a mercati aperti)

Per quanto possa sembrare paradossale però, quella posizione ormai agli sgoccioli è proprio ciò che garantisce a questi illustri precari gli strumenti per combattere la loro guerra. Il loro ruolo conferisce ad ogni parola, sillaba o fonema pronunciato la possibilità di orientare i mercati, con inevitabili conseguenze sullo spread: un’arma che, indirettamente, potrebbe generare un clima di incertezza negli elettori del fronte euroscettico, persuadendoli della necessità di non cambiare rotta.

Nè più, nè meno di quanto visto in occasione della polemica sulla manovra italiana. Al netto di un giudizio di merito sulla bontà di quest’ultima infatti, la curva del differenziale tra i titoli nostrani e quelli tedeschi ha subito una forte impennata non al momento della sua presentazione, bensì al momento delle dichiarazioni di Moscovici e subito dopo la bocciatura della Commissione. Tenendo presente poi l’effetto prodotto dalle parole di Mario Draghi, il quale è venuto in soccorso all’esercito in difficoltà con una potentissima cavalleria (sotto le mentite spoglie di continue conferenze stampa).

 

Il giudizio di Bagnai e Sapelli

Alberto Bagnai, Presidente della Commissione finanze del Senato

Come ha sottolineato Alberto Bagnai

mi sembra improprio che il massimo responsabile della stabilità finanziaria in Europa emetta degli allarmi circa la tenuta delle banche di un paese, che è sotto il controllo della sua vigilanza. Se penso alla cultura della vigilanza del nostro paese, che per molti aspetti è superiore a quella di paesi come la Germania, io difficilmente immagino un governatore della Banca d’Italia dire che la banca tale è poco solida a mercati aperti: sarebbe assurdo

Dello stesso avviso del presidente della Commissione Finanze del Senato, è anche il Prof. Giulio Sapelli. L’ex docente di Storia dell’economia, durante la trasmissione Piazza Pulita, ha evidenziato le storture causate dall’eccessiva esposizione mediatica del Governatore della Banca Centrale Europea, facendo un confronto con la prassi del passato e suggerendo una possibile contromisura per placare lo spread.

Per diminuire lo spread ci sono degli strumenti tecnici. Ad esempio non puntare solo sui btp a 10 anni, ma cominciare ad emettere titoli a breve termine, che disincentivano la speculazione e possono essere acquistati dai piccoli investitori, che li tengono come tesoretto. Questa è una questione tecnica che Draghi conosce bene… Un tempo i banchieri centrali parlavano una volta all’anno e secondo me Mario Draghi fa troppe dichiarazioni. Perché tutte le dichiarazioni che ha fatto, soprattutto a borse aperte, sono pericolose: quindi dovrebbe tacere. I banchieri un tempo tacevano”.

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Di Filippo Klement

Classe 1990, ha studiato giurisprudenza, a latere un vasto interesse per la storia contemporanea e la politica.

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