Nel classico gioco degli scarichi di responsabilità, i membri del precedente esecutivo si beano di aver risollevato l’Italia grazie al jobs act: ma i numeri sull’occupazione dicono tutt’altro.
La mancata crescita del PIL nel terzo trimestre del 2018 è stata percepita come un’autentica manna dal cielo, tanto dal circuito massmediatico, quanto dalla nostra fauna politica. Da una parte ha consentito alla carta stampata, ai notiziari e ai talk show di affibbiare il regime di monopolio ad un argomento che si adatta perfettamente alla nuova tendenza dell’informazione contemporanea: l’allarmismo economico. Dall’altra ha fornito un ghiottissimo espediente alle formazioni parlamentari, permettendo loro di mettere in pratica il più elementare degli scarichi di responsabilità. Una delle tattiche più consolidate presenti nei libri di testo della demagogia politica.
Insomma, membri del precedente esecutivo che tacciano i loro successori di aver intaccato un periodo di prosperità ininterrotta che durava dal 2014 (figlio delle loro prodigiose ricette) ed esponenti dell’attuale maggioranza che rispediscono al mittente il j’accuse, presentando la frenata come un triste lascito dei loro predecessori: dinamiche viste e riviste, alla base dell’abc della politica sin dall’alba dei tempi.
Una tesi inverosimile persino per Boccia e Severgnini
A dire il vero però, l’oggetto di questa specifica fattispecie non è un dato manipolabile secondo le esegesi di parte. La stasi del prodotto interno lordo nell’ultimo trimestre, rientra serenamente nella fisiologica fallibilità delle previsioni di crescita e nell’imprevedibilità di alcune congiunture del mercato nel breve periodo. Ma soprattutto, è tecnicamente impossibile che si tratti di un risultato imputabile ad un governo entrato in carica da appena 5 mesi (con tanto di interruzione estiva dei lavori parlamentari) e che non ha ancora varato la manovra finanziaria.
Una congettura per formulare la quale, serve una notevole assenza di pudore ed un’onestà intellettuale, pressappoco, sotto i tacchi. A tal punto che perfino alcuni esponenti del Partito Democratico -come Boccia– ed un suo irriducibile fedele come Severgnini, folgorati come San Paolo sulla via di Damasco, hanno ammesso l’impossibilità di una correlazione tra l’esecutivo gialloverde e lo stop della crescita.
Il Jobs Act e l’orgoglio di Renzi
Onestà intellettuale che però, non è venuta in soccorso a tutti negli ambienti della vecchia maggioranza, come testimoniato dagli interventi di Luigi Marattin e Matteo Renzi. E specialmente l’analisi dell’ex premier, fornisce lo spunto ideale per render noto un altro dato dell’Istat, che sta inspiegabilmente rimanendo in ombra rispetto alla frenata del PIL.
L’ex segretario del PD sul suo profilo Facebook ha digitato “Noi prendiamo il governo quando il paese è in recessione. Facciamo jobs act, sbloccaitalia, riduzione irap… e l’Italia torna col segno più”. Esatto, ha citato il Jobs Act. Non c’è alcun dubbio che una riduzione delle garanzie sindacali, l’eliminazione della tutela reintegratoria nei licenziamenti illegittimi e l’acausalità dei contratti a tempo determinato possa aver favorito investimenti e produttività, essendo stato notevolmente ridimensionato il costo del lavoro. Peccato che si tratti della falla concettuale che caratterizza l’integralismo liberista, laddove il gatto si morde la coda, ma la coda non interessa più a nessuno. Se si abbattono i salari e si facilitano i licenziamenti, creando di conseguenza povertà e disoccupazione, ecco che tutti questi sviluppi nella produzione industriale diventano effimeri ed i toni entusiastici restano appannaggio degli allocchi o dei disonesti. Sempre più gente dovrà stringere la cinghia, senza poter usufruire di tutto l’incremento disponibile sul mercato, il quale verrà spartito all’interno di una nicchia sempre più esigua.
La corsa ai ripari degli imprenditori
Non a caso, i dati sull’occupazione continuano a non sorridere; ma quello che impressiona è la dinamica di questi numeri, i quali assumono le sembianze di una vera corsa ai ripari da parte dei datori, prima della fine della pacchia (per usare un’espressione molto in voga nell’attuale comunicazione politica) garantita dal tanto decantato Jobs Act. A Settembre, a fronte di un calo di 77.000 dipendenti a tempo indeterminato rispetto al mese precedente, si è registrato un incremento di 27.000 unità nel campo dei lavoratori a termine e di 16.000 in quello dei lavoratori autonomi. Un saldo che resta ampiamente negativo (-34.000), ma che evidenzia soprattutto l’ipocrisia di quella classe imprenditoriale che sempre più spesso accusa i dipendenti di essere privi di cultura del lavoro.
Una bella faccia tosta, considerando i numeri degli esuberi appena snocciolati. I datori, nell’ultimo mese, anziché cercare di adattarsi e prepararsi alla prossima disciplina contrattuale, hanno preferito sfruttare fino all’ultimo la flessibilità garantita dalla riforma del 2015, raschiando il fondo del barile e facendo incetta di precari in condizioni più vantaggiose.
La nuova disciplina
Dal ieri infatti, sono entrate in vigore le nuove norme in tema di contratti a tempo determinato, previste dal decreto dignità. D’ora in poi, l’eventuale rinnovo di un contratto a termine tornerà a prevedere l’obbligo della causale e sarà possibile solo in presenza di particolari esigenze (sostituzione temporanea di altri lavoratori o incrementi non programmabili dell’attività ordinaria). Inoltre, non potrà superare la durata massima di 24 mesi, sommando tutti i rapporti intercorsi tra le parti per le stesse mansioni, senza dimenticare che per ciascun rinnovo sarà previsto l’aumento di 0,5% del contributo addizionale.
Non che questo significhi un’immediata rinascita del lavoro permanente, ma di certo sono presenti deterrenti e barriere nei confronti della deriva precarizzante che sta eviscerando il mondo del lavoro. Una deriva che alcuni datori porterebbero avanti serenamente. Una deriva che viene ancora spudoratamente ostentata dai suoi promotori politici, come immenso motivo di vanto.