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Il salvataggio di Carige: ovvero un’altra stupida regola europea

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Tiene banco nelle ultime ore del dibattito pubblico italiano la decisione del Governo di intervenire nelle questioni interne alla banca ligure Carige.

Quello che ha fatto particolarmente discutere è stato il Consiglio dei Ministri lampo riunitosi lo scorso lunedì in tarda serata.

Il salvataggio lampo di Carige

Mezz’ora, tanto è bastato per predisporre un decreto legge che “interviene a offrire le più ampie garanzie di tutela dei diritti e degli interessi dei risparmiatori della banca Carige, in modo da consentire all’amministrazione straordinaria di perseguire in piena sicurezza il processo di consolidamento patrimoniale e di rilancio delle attività dell’impresa bancaria”, come dichiarato dallo stesso premier
Giuseppe Conte.

Una scelta che ha sicuramente prestato il fianco del Governo alle critiche più scontate.

Mai più decreti salva banche

era stato infatti uno degli slogan principali del Movimento 5 Stelle e in parte anche della Lega. Così facendo l’attuale esecutivo sembra essere incorso in uno dei più classici meccanismi di cortocircuito post elettorale, quando le promesse agli ultimi si scontrano con gli interessi dei grandi. Insomma siamo nel momento in cui Robin Hood si trasforma nel Principe Giovanni.

Le differenze con i casi precedenti

La vicenda è però più complessa di come la stampa mainstream e l’opposizione italiana la vogliano presentare al pubblico. C’è infatti una notevole differenza tra l’intervento statale su Carige, che non è un
salvataggio, e ciò che in passato successe con altre banche italiane.

Nel caso delle ex banche popolari venete lo Stato italiano non intervenne infatti in maniera preventiva, come oggi, ma solo dopo il fallimento dell’azione del fondo Atlante, costato ben 3,5 miliardi provenienti da altre banche italiane.

Diverso è stato anche il caso che ha riguardato Banca Etruria nel 2015. Allora venne infatti utilizzato il meccanismo del “bail in”, ovvero l’utilizzo dei soldi di buona parte dei clienti della banca (esclusi i risparmiatori minori, anche se la normativa non è chiarissima su questo) per il salvataggio dell’istituto. Anche in quel caso, inoltre, l’intervento venne fatto in una situazione temporalmente successiva se paragonato al decreto odierno.

In sostanza nei precedenti casi si intervenne a fallimento avvenuto, mentre
oggi si interviene per impedire un possibile, ma non sicuro, crollo.

Ancora una volta due pesi e due misure dell’Europa

Un’ulteriore dimostrazione di questa sostanziale differenza viene confermata dal fatto che l’allarme Carige sia scattato solo dopo l’esito
negativo degli stress test posti in atto dalla vigilanza bancaria europea, mentre nei precedenti casi fu la Banca d’Italia a lanciare l’allarme. Un fatto di non poco conto considerata la manica strettissima utilizzata dalla vigilanza europea per la valutazione della salute degli istituti bancari.

In sostanza è molto più facile essere bocciati a livello europeo che a livello italiano e, inoltre, l’esito negativo degli stress test europei non indica una sicura insolvenza della banca. Ed è qui che viene fuori, ancora una volta, la fallacia di alcune regole europee.

Come riportato su startmag:

la Vigilanza Bce che, da fine 2014, è subentrata agli organismi nazionali nella supervisione di oltre cento istituti significativi (quelli con oltre €30 miliardi di attivo). Sin da subito il suo obiettivo è stato quello della eliminazione, a qualsiasi costo, degli Npl dai
bilanci bancari. A nulla rileva il fatto che Bankitalia abbia più volte evidenziato i danni prodotti ai bilanci bancari da tali dismissioni a tappe forzate e le sue perplessità sulla effettiva necessità di ridurre così in fretta gli Npl.
Niente da fare, la Signora Nouy è stata irremovibile. Vendere tutto ed in fretta. Giammai farsi sfiorare dal dubbio che entrare in Italia con regole uniformi per tutti senza tenere conto della specificità di un Paese
investito dalla recessione più grave dal dopoguerra, sarebbe equivalso all’ingresso di un elefante in una cristalleria. Con il prevedibile risultato di produrre sacrificio della marginalità delle banche, eccellenti ritorni sugli investimenti a favore di pochi investitori internazionali e crollo della capitalizzazione delle nostre banche a quel punto cotte a puntino per finire in pasto, per il solito simbolico 1€, ad altre banche italiane o straniere.

La differenza tra crediti deteriorati e derivati

In pratica la vigilanza bancaria europea ha attuato una vera e propria caccia alle streghe contro questi npl. Si tratta invero dei cosiddetti Non Performing Loans (o crediti deteriorati). Sono i crediti che la banca detiene nei confronti di debitori in difficoltà. Si tratta quindi di mutui, prestiti o
finanziamenti, di cui la banca non è certa di vedere la completa restituzione.

Immaginiamo il danno che una simile politica possa fare in un Paese in recessione da otto anni, dove i prestiti bancari sono l’ultimo
ossigeno a disposizione di certi imprenditori
. Tale severità sul giudizio dei crediti deteriorati, che occorre ricordare come talvolta sono restituiti, si scontra con il lassismo della stessa vigilanza sui derivati in pancia alle banche. Su queste pagine abbiamo già scritto dell’incredibile mole di questi titoli tossici detenuti dalla Deutsche Bank (48mila miliardi di euro secondo gli ultimi dati), ma ci ha pensato poi il Sole 24 Ore con un’inchiesta del 2017 a smascherare un meccanismo di “due pesi e due misure” da parte della vigilanza bancaria europea.

Manica larga e lassismo degli ispettori per Deutsche Bank, definita da molti analisti come la “bomba globale dei derivati, mentre veniva utilizzato il pugno duro e una pignoleria maniacale durante gli stress test degli istituti italiani. Con l’ulteriore differenza che i crediti deteriorati sono un rischio necessario per il lavoro della banca e della comunità dei cittadini, mentre le attività sui derivati rappresentano un esercizio di mera speculazione finanziaria il cui rischio ricade esclusivamente sui cittadini. Carige dimostra ancora una volta come l’Unione europea si traduca troppo spesso in una italianizzazione dei rischi e una germanizzazione dei profitti.

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Di Gabriele Tebaldi

Classe 1990, giornalista pubblicista, collabora con Elzeviro dal 2011, quando la testata ha preso la conformazione attuale. Laurea e master in ambito di scienze politiche e internazionali. Ha vissuto in Palestina, Costa d'Avorio, Tanzania e Tunisia.

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