I problemi dell’Italia nati dall’imposizione del pensiero unico liberale degli ultimi 40 anni non traggono origine solo dai mali della politica e dell’informazione che hanno rinunciato, tradendoli, ai propri principi etici, morali e deontologici. Anche l’istruzione è stata, da decenni ormai, infettata dal virus liberale.
Autore: Gilberto Trombetta
Ne è un esempio l’importanza assunta dalla Bocconi, che rappresenta la versione italiana della scuola di Chicago. Come sottolinea il professor Saverio Fratini nella recensione della nuova edizione di “6 lezioni di economia” di Sergio Cesaratto:
«L’accademia italiana [cioè il massimo auspicabile dell’istruzione, N.d.R.] ha avuto, fino a non troppi anni fa, degli importanti economisti, dei capiscuola, che hanno formato i loro allievi ed i loro studenti proponendo un punto di vista indipendente nei confronti dell’approccio mainstream. Per fare qualche nome, pur consapevole di tralasciarne molti altri altrettanto importanti, posso ricordare Federico Caffè, Marcello De Cecco, Pierangelo Garegnani, Augusto Graziani, Luigi Pasinetti e Paolo Sylos Labini.
Economisti molto diversi tra loro, ma accomunati da un forte spirito critico e da un sostanziale scetticismo nei confronti dei presunti effetti benefici del liberismo. Fino agli anni Novanta, era praticamente impossibile laurearsi in economia in Italia senza essersi imbattuti nelle idee di almeno uno di questi studiosi. Oggi è esattamente il contrario, è quasi impossibile averne sentito parlare».
Succede così che ci ritroviamo scuole e università – fulcro dell’istruzione – presiedute da professori che non fanno altro che portare avanti il pensiero unico dominante, producendo migliaia di studenti non più in grado di ragionare.
Professori per cui quella della distruzione della Grecia rappresenta una storia di successo. Talmente di successo da auspicare lo steso per l’Italia.
Professori che davanti alle giuste, doverose proteste francesi contro una legge infame che li avrebbe riportati indietro all’Ottocento, annullando conquiste sociali ottenute con anni di lotte e di sangue, parlano dei capricci di una popolazione che rifiuta il cambiamento e destinata quindi a estinguersi.
Come gli passa per la testa, a questi lavoratori sporchi e ignoranti, di opporsi al taglio indiscriminato dei loro diritti e dei loro salari? Al taglio indiscriminato della loro vita. Perché forse ormai hanno convinto molti del contrario, ma il lavoro serve per vivere, non la vita per lavorare.
Ed è un diritto, non una concessione. Compito dello Stato è quello di tutelare la dignità del lavoro e, in ultima analisi, della vita dei propri cittadini. Indi per cui, c’è un gran lavoro da fare a livello di istruzione: in Parlamento, nelle redazioni e nelle aule universitarie. Si chiama lotta di classe.
Revisione ed impostazione grafica: Lorenzo Franzoni
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