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Fiat delocalizza (ancora): 6000 posti di lavoro sottratti all’Italia

Mike Manley insieme allo scomparso ad Sergio Marchionne

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La Fiat annuncia l’apertura di un nuovo stabilimento di produzione. Peccato che tale investimento non riguardi l’Italia, ma rientra nella più ampia strategia di delocalizzazione portata avanti ormai da anni dal Gruppo (torinese?).

In Italia ne hanno dato notizia solo il Corriere della Sera e La Stampa, senza peraltro entrare nel merito della scelta, discutibile, presa da Fca.

6000 posti di lavoro, il regalo di Fca agli Stati Uniti

La multinazionale guidata ora dall’ad Mike Manley ha deciso di investire ben 4,5 miliardi di dollari nel lontano Stato del Michigan, per la costruzione di un nuovo stabilimento produttivo a Detroit. Le stime danno per certa la creazione di oltre 6000 posti di lavoro e Donald Trump non può far altro che ringraziare cinguettando su Twitter.

La scelta di Fca è perfettamente coerente con tutte le azioni intraprese nell’ultimo periodo, nonché nella più ampia strategia che il Gruppo ormai non ha vergogna di nascondere. Qualche settimana fa davamo infatti notizia di come Fca avesse in un certo senso avvertito (per non dire minacciato) il Governo italiano sulla questione dell’ecotassa. “Con ecotassa il nostro piano di investimenti in Italia va rivisto”, aveva dichiarato Mike Manley. Detto fatto. Miliardi investiti negli Stati Uniti e sottratti all’Italia.

Fiat fa utili da record, ma continua a delocalizzare

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Eppure il Gruppo non se la passa di certo male a livello finanziario, visto che nell’aprile 2018 l’utile era cresciuto del 59% e alcuni giornali, come Repubblica, parlavano addirittura di “conti da record“. Insomma, quella vecchia storia secondo cui l’azienda taglia solo nei periodi di crisi economica non è nient’altro che una bella favola per far addormentare bambini e adulti. Le aziende ottimizzano i costi e basta, a prescindere dal quadro economico circostante. Cosi, invece che investire questi utili “da record” del 2018 nell’ammodernamento della linea di produzione, magari per renderla in linea con le nuove direttive italiane ed europee in fatto di ambiente, Fca sceglie di scappare. Legittime scelte aziendali?

Difficile rispondere in maniera affermativa, quando lo stesso Gruppo ha beneficiato di notevoli aiuti da parte dello Stato italiano lungo tutto l’arco della sua storia. Non è così lontano dalla realtà affermare invece che Fiat abbia ben usufruito delle agevolazioni statali, monopolizzando la produzione e l’economia di interi nuclei urbani, si veda Torino, per poi abbandonare il territorio dal giorno alla notte.

La profezia di Sapelli

Una scelta che un esperto come Giulio Sapelli non aveva tardato ad analizzare, come riportato in un suo intervento all’interno del libro di Filippo Astone “La disfatta del Nord”.

“Fiat è sempre stata una grande impresa motoristica. Ora però è stata ceduta alla Chrysler per mezzo di un contratto che prevede condizioni tanto più favorevoli quanto meno si produce in Italia. Da lì in poi è stato evidente che sarebbero usciti dall’Italia. Non è possibile stipulare un contratto così e poi dichiarare che si vuole restare in Italia”.

Fiat (ormai acronimo di Figuratevi Io A Torino) non ha più nulla di italiano a partire dal nome, Fiat Chrysler Automobiles, passando per il suo Amministratore Delegato, Mike Manley, di cittadinanza inglese, fino alla sua strategia votata all’espansione in ogni angolo di mondo, eccetto lo stivale. 156 stabilimenti nel mondo, di cui solo 35 italiani. Di italiano alla Fiat sono rimasti ormai solo più i soldi statali.

 

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Di Gabriele Tebaldi

Classe 1990, giornalista pubblicista, collabora con Elzeviro dal 2011, quando la testata ha preso la conformazione attuale. Laurea e master in ambito di scienze politiche e internazionali. Ha vissuto in Palestina, Costa d'Avorio, Tanzania e Tunisia.

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Un commento

  1. Delocalizza un modello, il grand cherokee già prodotto negli usa, e uno (SUV 7 posti) per il mercato usa che non esiste..
    Questo è delocalizzare la preparazione che servirebbe quando si scrive un articolo, informarsi. Ma ora mai il giornalismo italiano da tempo si è delocalizzato fuori dall’informazione