“Esce da un lato, rientra dall’altro”: il vecchio modo di dire, adattabile a moltissime situazioni, è più che mai applicabile alla politica militare Usa in Siria e, senza complicate analisi, ecco la valutazione di semplici “fatti” che permette di farsi una opinione in materia.
Trump, tenendo fede al suo programma elettorale, annuncia in dicembre al mondo che la guerra all’Isis è (quasi) finita e che le truppe americane (non i contractors) si ritirano immediatamente dalla Siria.
Scatta all’istante il dissenso e la contrarietà dei vertici militari del Pentagono e del suo stratega Jim Mattis che, uniti ai media pro Curdi di tutto il mondo, strepitano per la triste sorte dei miliziani minacciati da Erdogan.
Quindi il “ritiro” diviene meno “immediato” e diluito in tre mesi. Così, tra qualche bombardamento e qualche combattimento con i residui dell’ Isis, arriviamo al 15 gennaio quando l’Osservatorio per i diritti umani in Siria (SOHRO),organizzazione ferocemente ostile al governo Assad, segnala l’ingresso (dall’Iraq) in territorio siriano di oltre 100 mezzi militari statunitensi diretti chissà dove verso Oriente.
L’altro ieri, giorno 16, a Manbij esplode un kamikaze islamico ed ammazza (tra 16 vittime) 4 soldati americani. Vuoi vedere che salterà fuori la ancora attuale pericolosità dello Stato Islamico e che Trump “allungherà” le date del (presunto) ritiro?
Strano che,
ancor prima del provvidenziale attentato, rientrino più truppe di quante ne siano uscite. Casualità,visione complottistica? Resta la preesistente domanda base per i lettori che desiderino porsela: che cavolo ci fanno soldati Usa in Siria ? In base a quale deliberato Onu possono avere truppe e basi a terra sul territorio di uno stato sovrano il cui legittimo governo è quello di Assad?
Visto che nessuna istituzione internazionale (Onu in testa) risponde e che i media occidentali glissano, non resta che una considerazione. Il prezzo alla loro arroganza gli yankee, ogni tanto, lo pagano, sulle spalle di giovani soldati.