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Mosul peggio di Aleppo, ma gli americani hanno l’autorizzazione ai massacri

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Mosul e Aleppo. Due città di due diversi Paesi, ma accomunate da un destino, la rispettiva distruzione materiale. Mosul, città irachena dove il Califfo Abu Bakr Al-Baghdadi pronunciò il famosissimo discorso nell’estate 2014, è stata “liberata” la scorsa settimana dalla coalizione a guida americana (oltre alle truppe irachene, presenti anche francesi e belgi). Aleppo invece venne “conquistata” da una potenza occupante, la Russia, e da uno Stato ormai “fantoccio” sotto la guida di un tiranno, Assad.

Mosul e Aleppo, stesso scenario, ma diverso linguaggio

La “liberazione” di Mosul e la “conquista” di Aleppo. I media parlano così. La prima dunque dovrebbe essere a rigor di logica un’operazione benevola, mentre la seconda no. E difatti, sempre secondo i media, la descrizione dei due eventi è antitetica. Se infatti il Corriere, per esempio, si riferiva all’assedio di Aleppo come “mattanza”, “trattamento russo”, “carneficina”; d’altra parte su Mosul si parla di civili prima “intrappolati” poi “liberati dall’offensiva”.

Stesso scenario veniva descritto nei reportage di Sky Tg24. Sul canale d’informazione satellitare, durante la battaglia di Aleppo, venivano diffusi addirittura videomessaggi di “civili” (in realtà si trattava di attori al soldo di Al Qaeda) che denunciavano le violazioni dei russi e dell’esercito regolare siriano. Anche su Sky Tg24 la battaglia di Mosul è stata invece seguita come una “liberazione”.

Un rapporto che testimonia la carneficina di Mosul

Usciva però lo scorso 11 luglio un rapporto di Amnesty International dal titolo “A tutti i i costi: la catastrofe di civili a Mosul ovest”. Un dettagliato rapporto del modus operandi della coalizione a guida americana, che ha tenuto evidentemente di poco conto le cosiddette “civilian casualties” e le strutture di rilevanza artistica e sociale. Già solo prima dell’assedio finale le vittime civili di Mosul erano arrivate a 426. Dopo l’assedio hanno ovviamente sfondato il muro delle migliaia.

Una vera e propria mattanza dunque, confermata anche da altre analisi giornalistiche. Patrick Cockburn, reporter per The Indipendent, ha così commentato: “Nel caso di Aleppo est, per prima cosa sono stati incolpati il Governo siriano e i russi. Nel caso di Mosul, la colpa è stata prima fatta ricadere sui terroristi Isis che hanno usato i civili come scudi umani…le situazioni ad Aleppo e Mosul sono in gran parte simili”.

A confermare le parole di Cockburn ci pensa poi il Global Research che così titola: “Liberazione di Mosul: un’altra Falluja”. Uno scenario che ricalcherebbe in pieno la figura dell’attuale Segretario alla Difesa Usa James Mattis, il cane pazzo. “È divertente far fuori quei picchiamoglie” aveva dichiarato il Generale anni fa. A Mosul sembra aver dato forma ai suoi divertimenti. Insieme alla distruzione fisica delle persone Mosul è stata inoltre annichilita nel suo centro storico, gioiello di architettura araba e reperti delle antiche civiltà mesopotamiche. Storia millenaria spazzata via da drones a stelle e strisce.

Cultura contro mercato e una scia di sangue lasciata da Washington

D’altronde la cultura, le radici e le tradizioni sono incompatibili con chi vuol esportare mercato, competizione e dollari. Mosul dunque rientra nell’infinita lista di stragi storiche a marca americana: dalle risaie vietnamite falciate da mitragliatrici e napalm, passando per il bombardamento di Baghdad del 1991, la distruzione di una città storica come Belgrado nel 1999, per poi arrivare a Kabul, di nuovo Baghdad (con il massacro di Falluja) e infine Tripoli e Bengasi. Senza contare le stragi perpetrate in Latinoamerica attraverso l’utilizzo di mercenari, come certificato dalla Corte Internazionale di Giustizia (Guatemala, El Salvador, Nicaragua, Panama). Una logica di sangue che tuttavia viene ancora giustificata dai principali media occidentali.

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Di Gabriele Tebaldi

Classe 1990, giornalista pubblicista, collabora con Elzeviro dal 2011, quando la testata ha preso la conformazione attuale. Laurea e master in ambito di scienze politiche e internazionali. Ha vissuto in Palestina, Costa d'Avorio, Tanzania e Tunisia.

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