La lezione del nuovo premier giapponese Yoshihide Suga: non c’è alcun limite al debito che può emettere uno Stato, se dispone della sovranità monetaria.
di Thomas Fazi
Da oggi (16 settembre) il Giappone ha un nuovo primo ministro: Yoshihide Suga, presidente del Partito Liberal Democratico ed ex ministro degli affari interni e delle comunicazioni e segretario generale del governo negli esecutivi guidati da Shinzō Abe. Sotto la sua guida, possiamo essere certi che il Giappone continuerà a impartire lezioni di macroeconomia al mondo e a sfatare i molti miti che, ahinoi, continuano ancora a circolare in materia di deficit e di debito pubblico, soprattutto nella nostra disgraziata Europa.
Solo qualche giorno fa, nel corso di un’intervista, Suga ha dichiarato chiaramente che non c’è alcun limite al volume di titoli di Stato che può emettere il governo giapponese e dunque al rapporto debito/PIL del paese, che quest’anno dovrebbe raggiungere il 270 per cento (sì, avete letto bene). «L’unica cosa che conta in questo momento è migliorare le condizioni economiche: creare posti di lavoro e proteggere le imprese», ha aggiunto.
Suga si è limitato a enunciare una banalissima verità, che, però, in un tempo di inganno universale (soprattutto sui temi economici) quale quello che viviamo da anni, acquista una valenza quasi rivoluzionaria. Detto molto semplicemente, per uno Stato che dispone della sovranità monetaria e che emette debito nella propria valuta, non c’è alcun limite intrinseco alla quantità di debito che esso può emettere, né in termini assoluti né in rapporto al PIL.
Non c’è alcuna “soglia” oltre la quale si va incontro a chissà quali conseguenze nefaste (giusto qualche anno due economisti di fama mondiale pubblicarono un celebre paper, poi smontato da un studente ventenne, in cui affermavano che il debito pubblico diventava un problema una volta superata la soglia del 90 per cento del PIL: in pratica il Giappone, con il suo rapporto debito/PIL del 270 per cento, dovrebbe essere messo peggio della Libia).
La verità è che uno Stato che rispetta le suddette condizioni – cioè che emette la propria valuta ed emette debito nella suddetta valuta – non potrà mai rimanere a corto di soldi, né potrà mai trovarsi impossibilitato a finanziare (e rifinanziare) il proprio deficit/debito.
Per il semplice fatto che, nel caso in cui non vi fossero investitori privati disposti a comprare i titoli emessi dallo Stato al tasso di interesse fissato da quest’ultimo – come dimostra il Giappone, lo Stato ha sempre il potere di determinare il tasso di interesse sui propri titoli –, la banca centrale può sempre intervenire per comprare i titoli essa stessa o per rimborsare i titoli in scadenza (quello che in gergo tecnico si chiama rollover) attraverso la creazione di denaro dal nulla.
Come viene riconosciuto persino in uno studio della BCE di qualche anno fa: «In uno Stato che dispone della propria moneta fiat, l’autorità monetaria e quella fiscale sono in grado di garantire che il debito pubblico denominato nella propria valuta nazionale non sia soggetto al rischio di default, nella misura in cui i titoli emessi dal governo sono sempre monetizzabili in modo equivalente».
Questo è esattamente quello che la Banca del Giappone sta facendo da anni (ma che in misura minore stanno facendo un po’ tutte le banche centrali). Oggi essa possiede quasi il 45 per cento di tutti i titoli di Stato emessi dal Giappone; considerando che la variazione nella quota di titoli detenuta dalla BdG negli ultimi anni è aumentata molto più della variazione nel volume di titoli totali emessi, questo significa che la Banca del Giappone negli ultimi anni ha effettivamente finanziato per intero – o “monetizzato” – il deficit di bilancio giapponese.
In quest’ottica, risulta evidente come il debito pubblico, in un regime di cooperazione tra banca centrale e Tesoro, non sia altro che un debito che un ramo dello Stato ha nei confronti di un altro ramo dello Stato: un debito, in altre parole, che lo Stato ha nei confronti di se stesso e dunque, a tutti gli effetti, fittizio.
Un debito, cioè, che esiste solo dal punto di vista contabile, ma che non comporta conseguenze di alcun tipo, a prescindere dalla sua entità, perché non deve realmente essere ripagato. Come riconosceva un economista tutt’altro che radicale come Luigi Spaventa già negli anni Ottanta a proposito della cooperazione tra Tesoro e Banca d’Italia che era la norma prima del “divorzio” del 1981:
Lo stock di base monetaria creata tramite il canale del Tesoro può essere considerato un debito solo convenzionalmente. Ciò si vede bene qualora si consolidi il Tesoro con la banca centrale: in questo caso manca un vero e proprio debito corrispondente alla base monetaria creata dalla Banca d’Italia per conto del Tesoro, e in ciò consiste l’essenza del potere del signoraggio.
Ora, va da sé che in Giappone non si è manifestata nessuna delle piaghe bibliche che, a detta di tutti gli economisti mainstream, dovrebbero manifestarsi per effetto della monetizzazione del deficit e/o del debito: tassi d’interesse alle stelle, inflazione galoppante ecc. I tassi di interesse continuano ad essere vicini allo zero – per il semplice fatto che, come detto, che li fissa la banca centrale –, mentre l’inflazione, semmai, continua ad essere eccessivamente bassa, in Giappone come altrove.
Una conseguenze visibile della politica monetario-fiscale giapponese però c’è: il Giappone è uno dei pochi paesi in cui il tasso di disoccupazione, nonostante la pandemia e la recessione globale in corso, non è aumentato quasi per nulla, rimanendo sotto la soglia del 3 per cento. A dimostrazione di come il tasso di disoccupazione sia sempre una scelta politica e del ruolo fondamentale della politica di bilancio nel regolare il tasso in questione.
Come notava qualche tempo fa Olivier Blanchard, ex capo economista del Fondo monetario internazionale (FMI), «far aumentare in maniera significativa il deficit primario e il debito pubblico è stata la scelta giusta [per il Giappone]. Il disavanzo primario, in particolare, che ha registrato una media del 5,4 per cento dal 1999 ad oggi, ha giocato un ruolo cruciale nel sostenere la domanda e la produzione».
In sintesi: il Giappone rappresentata la smentita vivente di tutte le mistificazioni del mainstream economico sulla natura e il ruolo del deficit e del debito pubblico, nonché sulle conseguenze devastanti che si sarebbero presumibilmente dovute avere per via dell’aumento del deficit e del debito pubblico, inculcateci in questi anni per giustificare brutali politiche di austerità che non avevano alcuna ratio tecnica o scientifica.
Ovviamente, quanto detto a proposito del Giappone e degli altri paesi che dispongono della sovranità monetaria non si applica a quei paesi che si indebitano in una valuta che non controllano, come avviene nell’eurozona. Come scrive la stessa BCE nel succitato rapporto: «Sebbene l’euro sia una moneta fiat, le autorità fiscali degli Stati membri della zona euro hanno rinunciato alla possibilità di emettere debito esente dal rischio di insolvenza (non-defaultable debt)».
Sarebbe a dire che, sebbene oggi anche la BCE stia praticando una parziale monetizzazione del debito, i singoli Stati rimangono comunque alla sua mercé: in qualunque momento la BCE può rivedere la propria politica monetaria e far ripiombare uno Stato nelle fauci della speculazione.
La differenza, alla fine, sta tutta qua: in Giappone (e in tutti gli altri Stati che dispongono della sovranità monetaria), la banca centrale è effettivamente dipendente dal governo; nell’eurozona, invece, sono gli Stati ad essere dipendenti dalla banca centrale.