Non si tratta solo di riposizionamenti. Che l’adesione all’Unione Europea e l’adozione dell’euro ci avrebbero fortemente penalizzati, uccidendo il modello di società che ci aveva regalato la più grande crescita al mondo per circa un secolo, era cosa nota. Di avvertimenti ce ne erano arrivati tanti, sia dentro che fuori confine.
Autore: Gilberto Trombetta
Stavamo sostituendo uno Stato che si era preso la briga di mediare il conflitto sociale facendo diminuire le disuguaglianze, con uno il cui compito era aumentarle, porre il confitto sociale al riparto dal processo elettorale, tutelare gli interessi dei mercati. Indipendenza (ma solo da noi) delle Banche Centrali, progressiva liberalizzazione della circolazione di merci, capitali e lavoro, progressiva finanziarizzazione dell’economia.
E, ciliegina sulla torta, la stabilità dei prezzi (cardine della UE)
che si sostituiva alla piena occupazione (cardine della nostra Costituzione). Eppure, dicevamo, si sapeva tutto. Queste le parole pronunciate nel 1993 dall’ex Governatore di Banca d’Italia, Guido Carli.
«È stupefacente constatare l’indifferenza con la quale in Italia è stata accolta la ratifica del Trattato di Maastricht, rispetto al clamore e al fervore interpretativo che si è potuto registrare in Francia, nel Regno Unito, in Germania, in Danimarca, nella stessa Spagna.
La cosa è tanto più difficile da comprendere se si considera che per l’Italia, più che per tutti gli altri paesi della Comunità, il Trattato rappresenta un mutamento sostanziale, profondo, direi di carattere “costituzionale”.
L’Unione europea implica la concezione dello “Stato minimo“,
l’abbandono dell’economia mista, l’abbandono della programmazione economica, la ridefinizione della modalità di composizione della spesa, una redistribuzione della responsabilità che restringa il potere delle assemblee parlamentari e aumenti quelle dei governi, l’autonomia impositiva degli enti locali, il ripudio del principio di gratuità diffusa (con la conseguente riforma della sanità e del sistema previdenziale), l’abolizione della “scala mobile”, la drastica riduzione delle aree di privilegio, la mobilità dei fattori produttivi, la riduzione della presenza dello Stato nel sistema del credito e nell’industria, l’abbandono di comportamenti inflazionisti non soltanto da parte dei lavoratori, ma anche da parte dei produttori di servizi, l’abolizione delle normative che stabiliscono prezzi amministrati e tariffe».
Per questo tutti coloro che in quest’incubo ci hanno gettati, mentendoci, non se la caveranno con un semplice mea culpa. Saranno, tutti, prima o poi, chiamati a rispondere delle loro enormi responsabilità.