L’uscita nelle sale di Hammamet impone una riflessione senza pregiudizi sul significato dell’esperienza socialista alla guida del paese. Con un occhio di riguardo verso l’imbarazzante involuzione del nostro peso diplomatico.
L’inizio del 2020, giorno dopo giorno, sta assumendo sempre di più i connotati di un autentico punto di svolta per la storia geopolitica italiana. Se questo poi sia destinato a rappresentare l’arresto obbligatorio in vista di un giro di boa – come qualunque nostro connazionale auspica – oppure un semplice punto di non ritorno destinato a rimanere piatto, costante e senza possibilità di ripresa, a nessuno è dato saperlo. Certo, il timore largamente diffuso è che la seconda ipotesi sia quella più accreditata, ma l’ottimismo primordiale che scorre nelle vene di qualsiasi popolo ultramillenario ci impone di conservare un seppur minimo beneficio del dubbio.
Ad onor del vero, se dovessimo soffermarci sui riscontri offerti dalla fredda cronaca, le prime settimane di questa nuova decade non avrebbero nemmeno offerto spunti per un allarmismo più intenso del solito. Tutto stava infatti procedendo secondo la scia di insignificanza e subalternità internazionale che ha contraddistinto gli ultimi 25 anni di questo paese, con la semplice aggiunta di qualche figura da cioccolataio in più: risultato fisiologico se si pensa alla smisurata incompetenza diplomatica di due figure chiave come Primo Ministro e Ministro degli Esteri.
L’effetto Hammamet
Ebbene, nonostante questa evidente linea di continuità – involutiva – rispetto al recente passato, si è tutto a un tratto palesato un forte elemento di rottura esterno. Un elemento certamente involontario, ma che ha violato una tacita regola di buona creanza: mai rivangare il passato nel bel mezzo di un periodo avaro di soddisfazioni. Il nostalgismo infatti, risulta mossa assai deleteria in qualsiasi campo: dalle relazioni interpersonali, ai risultati lavorativi, passando anche per la qualità della classe politica. La necessità di un confronto con sé stessi, di un bilancio, o di un esame di coscienza, diventa improvvisamente ineludibile.
Nella fattispecie l’elemento di disturbo si è rivelato essere la banale uscita di una pellicola cinematografica. L’inizio della distribuzione del film Hammamet, incentrato sugli ultimi sei mesi di vita di Bettino Craxi, ha riaperto a vent’anni esatti dalla dipartita un dibattito di proporzioni inimmaginabili sulla controversa figura dell’ex segretario del PSI; dai tentativi di – parziale o totale – riabilitazione, fino ad un’ondata di denigrazione post mortem. Quest’ultima senz’altro meno sorprendente, vista la sempiterna passione italica per il vilipendio di cadavere.
Rimettendo ad altre sedi un giudizio di merito sulla qualità del prodotto artistico, all’ultima opera di Gianni Amelio va riconosciuto un merito incontestabile, ovverosia quello di aver costretto i protagonisti attivi (i nostri rappresentanti) e passivi (semplici cittadini) della politica contemporanea a guardarsi dietro le spalle. Di averli costretti a fare i conti con il proprio passato. Un po’ come quei calciatori ormai sul viale del tramonto, che osservano le migliori giocate della loro gioventù trasmesse dai programmi che li ospitano.
L’epopea libica
Il mese di Gennaio, come si diceva all’inizio, è stato il suggello di una imbarazzante escalation di disastri, iniziata con la supina adesione al trattato di Maastricht – con la conseguente svendita dei principali asset strategici – ed apparentemente culminata con uno dei più eclatanti gesti di masochismo mai ammirati nella storia delle relazioni internazionali: l’appoggio all’invasione libica del 2011. Apparentemente, per l’appunto. Perché dopo aver benedetto e fornito le basi per una missione militare contro il nostro principale alleato nel Mediterraneo (lo stesso che ci garantiva ingenti forniture petrolifere a buon mercato, così come un affidabile controllo dei flussi migratori), abbiamo compiuto la proverbiale perseveranza diabolica.
Dovendo infatti scegliere chi appoggiare nella contesa a due per il controllo di un paese ormai sull’orlo del collasso, ci siamo accodati all’intuizione della sempre più evanescente comunità internazionale, la quale ha riconosciuto come legittimo presidente al-Sarraj. Il risultato? La più classica delle puntate sul cavallo sbagliato. Di nuovo. Il tutto mentre la Francia, nostra storica concorrente in materia libica che ha scatenato il suddetto conflitto proprio per sottrarre all’Italia la sua sfera di influenza nel paese magrebino, continua ad impartirci lezioni di tutela degli interessi nazionali, appoggiando il ben più robusto (militarmente) generale Haftar. A prima vista, senza troppi rimorsi verso le indicazioni provenienti dal palazzo di vetro.
Vincitori e vinti
Ebbene, come se tutto questo non fosse sufficiente, gli irreprensibili rappresentanti del Bel paese hanno brindato al nuovo decennio aggiungendo due piccole chiose. Dapprima la spassosissima gaffe del tentato – e non riuscito – vertice tra Conte, Haftar ed al-Sarraj, ed in seguito la grottesca soddisfazione per i risultati del summit berlinese; quel tanto che basta per superare di qualche altro metro il record di lancio dell’autolesionismo.
“Questo è un significativo passo avanti verso la pace”. Così ha pontificato il premier Giuseppe Conte al termine della Conferenza, precedendo di qualche istante il titolare della Farnesina; il quale ha avuto l’ardire di asserire “chi era al tavolo ha grandi influenze sulle parti libiche e questo fa ben sperare per il futuro del popolo libico”. Affermazioni talmente avulse dalla realtà da rendere difficile stabilire dove risieda il confine tra la semplice incompetenza e una mastodontica faccia di tolla.
Fatto sta che il summit tenutosi nella capitale tedesca ha rappresentato una passerella mediaticamente polarizzante, non c’è ombra di dubbio. Una vetrina che ciò nonostante, non può in alcun modo scalfire la sostanza o il peso specifico dei principali attori della contesa nordafricana. La partita infatti è indiscutibilmente diventata a due e si sta giocando sull’asse Mosca-Ankara: come dimostrano l’invio di milizie da parte di Erdogan a difesa della Tripolitania e l’intensa attività diplomatica di Putin con i due leader, recentemente ricevuti in un trilaterale a Mosca.
Per tutte queste e per mille altre ragioni (su tutte l’annosa questione dell’inesistenza di una politica estera comune), l’entusiasmo ostentato al termine del summit berlinese ricorda da vicino la favola autoconsolatoria del cane di Mustafa. Tanto per l’Europa, quanto per l’Italia, sempre più emarginata da qualsiasi decisione di rilievo nei tavoli internazionali.
“Quando c’era Craxi”
Ed è proprio nel contesto di questo raggelante affresco che il confronto con l’epopea craxiana sopraggiunge in modo quasi naturale. Un confronto che dovrebbe servire perlomeno a mitigare la damnatio memoriae riservata dalla narrazione dominante allo storico segretario socialista negli ultimi due decenni. Perché se sulle illiceità commesse in patria ed indirizzate al finanziamento del partito non ci sono dubbi (fu lo stesso Craxi ad ammettere come quelle pratiche fossero una consuetudine implicitamente accettata dal sistema), allo stesso modo nessuno può sognarsi di negare l’età dell’oro vissuta dalla politica estera italiana durante l’amministrazione del PSI.
Un’epoca all’insegna della tutela della sovranità, dell’interesse nazionale e della propria autorevolezza oltre confine. Un tale rispetto per questi principi da risolvere prima il sequestro della Achille Lauro – tramite un’abilissima rete di trattative ed alleanze – e poi rifiutare di piegarsi alla più classica delle prepotenze americane in terra straniera. Con tanto di mitra dei Carabinieri puntati sui militari della Delta Force a Sigonella: l’unica occasione, dal dopoguerra in avanti, in cui l’Italia abbia mostrato un sussulto di ribellione alla colonizzazione a stelle e strisce.
L’esigenza di un confronto generazionale
Gesta che certamente non servono a derubricare le colpe di Craxi e non possono nemmeno cancellare il suo decisivo contributo al rafforzamento dell’iniquo sistema partitocratico (il cui contrasto fu intransigente solo a cavallo tra la fine degli anni ‘80 e i primi ‘90). In questa sede infatti, non si va auspicando una sanatoria o un’amnistia morale per i membri di quella generazione politica; tutt’al più si invoca equilibrio e correttezza nel conferimento di certi giudizi storici.
In questo senso Hammamet calza a pennello. Costringendoci, come si diceva, al confronto con un’era politica caratterizzata da molte ombre, ma anche da intensi sprazzi di luce. Quegli stessi sprazzi che negli anni del rispetto delle sanzioni contro Russia ed Iran (in barba ai miliardari interscambi commerciali in gioco), della malagestione dei flussi migratori, della destabilizzazione libica e dei suoi successivi sviluppi, appaiono come miraggi.
Se la classe di Sigonella è stata definita dai posteri come “il Medioevo della politica”, siamo ansiosi di conoscere quale definizione verrà riservata a quella attuale: quella che come maggior risultato diplomatico, potrà vantare l’estradizione di Cesare Battisti o la truffa fantozziana del Green New Deal.