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Facebook e il liberismo sfrenato di Zuckerberg

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Del resto Facebook l’ha inventato un giovane americano, di quelli che fin da piccoli l’unica cosa che sognano è fare molti soldi in fretta e poi vivere di rendita,

vedendo il loro capitale moltiplicarsi esponenzialmente senza fare nulla, però pagando lobby, giornalisti e politici perché convincano la gente che gli altri, i comuni mortali, debbano lavorare sempre di più e accontentandosi di poco (il poco stabilito dal “mercato”), se no vuol dire che sono degli scansafatiche o, peggio, dei falliti e dunque non meritevoli di niente in quanto il mondo è di chi ha successo.

Questa concezione della vita e della società si chiama liberismo.

Facebook e i social in generale la esprimono e promuovono con la loro struttura e le loro modalità d’uso, al di là dei contenuti: malgrado il nome sono dispositivi capaci solo di generare e promuovere individualismo, superficialità, fanatismo.

Pensate al loro linguaggio, a come abbiamo svuotato il significato della parola “amico” (lo ricordate il proverbio “chi trova un amico trova un tesoro”?), banalizzato il giudizio (“mi piace” con un semplice clic), sdoganato le cazzate, ossia l’impulso a parlare anche quando non si abbia nulla da dire, anche quando non ci si sia informati, non si sia prestata attenzione, non si abbia riflettuto.

Come se l’essenziale non fosse comunicare agli altri una conoscenza bensì dare sfogo al bisogno di esprimere la propria soggettività; il liberismo “vede la propria salvezza nel consentire alle masse di esprimersi (non di vedere riconosciuti i propri diritti)”, come scrisse del fascismo Walter Benjamin.

Così mi sono preso una vacanza da internet. Non programmata: per alcuni giorni l’assenza è stata dovuta ad altri impegni. Ma nel frattempo ho cominciato a sentirmi meglio; quando poi ho anche smesso di guardare i giornali per dedicarmi solo ai libri e al giardinaggio approfittando dell’isolamento sociale da coronavirus, mi è anche tornato l’ottimismo.

Perché allora sono di nuovo online? Perché purtroppo in questo mondo, credo per la prima volta nella Storia, non ci si può esentare dalla realtà neanche fuggendo. Non ci sono più luoghi, neanche i deserti, non toccati dall’ingordigia del neoliberismo e dei suoi tanti seguaci, che tutto ciò che di buono e di bello c’è su questo pianeta lo stanno distruggendo per l’ansia di consumare e sprecare.

È come in guerra: bisogna prendere posizione o si è complici del più forte, per default.

Non mi piace ma va fatto, e non perché l’impegno o il sacrificio garantiscano la vittoria: no, la vittoria è improbabile. Si tratta di un dovere morale e politico, ossia l’unica azione che ancora possa dimostrare la nostra umanità.

Francesco Erspamer
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Redazione Elzeviro.eu

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