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Quando il Classico non va più di moda

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Sempre meno ragazzi scelgono gli studi classici, salgono invece gli istituti tecnici (dati Miur).

Il Liceo Classico è in pieno declino, dai dati del Miur emerge che sempre meno ragazzi decidono di intraprendere gli studi classici a base di materie umanistiche (dal 10% del 2004/05 al 6% del 2013/14); aumenta in maniera seppur lieve il numero di iscritti al Liceo Scientifico e aumenta ancor di più il numero di iscritti agli Istituti tecnici. In picchiata invece le iscrizioni all’Università (-17% in 10 anni).

Da questi dati emerge chiaramente come, in un periodo di crisi economica e sociale profonda, i ragazzi scelgano di orientare la propria formazione verso un indirizzo di studio che fornisca una preparazione di tipo più pratico, anziché teorico, nella speranza di potersi inserire nel mondo del lavoro quanto prima e con maggiore facilità una volta terminati gli studi. E ovviamente, alla luce di questi dati, non mancano le polemiche da parte di chi, probabilmente fedele alla didattica classica di vecchio stampo, sostiene che i giovani tendano a snobbare gli studi classici per il fatto che non vogliono pensare o non sono abituati a farlo, o perché poco propensi ad aprire la mente, preferendo il tutto e subito, per tirare a campare, ecc.

Premesso che indipendentemente dalla crisi e dalla forma mentis dei giovani la formazione del liceo classico non è da svalutare né da buttare via, comunque le motivazioni, per quanto ciniche ed utilitaristiche, che spingono i giovani a scegliere altri percorsi di studio non sono poi del tutto illegittime. Perchè mai trascorrere 5 anni (e in molti casi 6) sui libri di greco, per acquisire un bagaglio di conoscenze che probabilmente in futuro non verrà mai considerato da un selezionatore di risorse umane durante un colloquio di lavoro? Perchè sorbirsi per 5 anni le lavate di capo da parte dei docenti di latino e di greco sull’importanza dei brani di Cicerone e Erodoto, se poi queste conoscenze non potranno essere capitalizzate né investite in futuro nel mondo del lavoro?

Il tutto fa tornare in mente la famosa dichiarazione fatta nel 2010 dall’allora Ministro dell’Economia Giulio Tremonti, ossia, “Purtroppo la cultura non si mangia.

E’ brutto da constatare, ma in una situazione in cui ai giovani viene prospettato un futuro fatto solo di precarietà, disoccupazione, se non addirittura di fame in alcune parti d’Italia e in cui gli si fa capire chiaramente già da adolescenti che potranno studiare tutto quello che vorranno per quanto tempo vorranno, tanto il loro futuro sempre quello sarà: ebbene di fronte a ciò non ci si può neanche scandalizzare se poi l’orientamento formativo e professionale è quello che emerge dai dati del Miur.

E’ ovvio che, dall’altra parte, anche la formazione degli studi tecnici non è detto che sia utile affidabile, in un’Italia in piena deindustrializzazione e in cui lo sviluppo tecnologico lascia molto a desiderare anche l’istruzione tecnico-professionale rischia di servire a poco e niente.

Pochi considerano che in una società globalizzata come quella odierna le lingue straniere valgono come un passepartout, in una società in cui l’economia occupa lo stesso identico ruolo che occupava la teologia nel Medio Evo sono le materie giuridico-economiche ad avere un ruolo dominante, quindi forse tra i vari indirizzi di studio superiori quello più attendibile, più utile e più credibile è quello di matrice linguistica. Il liceo linguistico (o liceo europeo) è simile al classico per l’approccio verso le materie umanistiche, con l’unica differenza che non c’è il greco (salvo alcune sperimentali), ma torna molto più utile al presente oltre ad essere molto più proiettato al futuro: materie come diritto ed economia oggi dovrebbero essere pane quotidiano per la formazione di un giovane, senza contare che chi esce dal linguistico possiede una conoscenza, magari non ottima ma comunque discreta, di ben tre lingue straniere tra inglese, francese, tedesco, spagnolo.

Alfine il problema cronico dell’istruzione italiana (intesa come Scuola e Università) resta quello del rapporto sfavorevole tra teoria e pratica. Tanta troppa teoria (ottima teoria, per carità) ma pochissima pratica impedisce ai giovani, sia diplomati che laureati, di inserirsi agevolmente nel mondo del lavoro. Se l’Italia riuscisse, tramite un’innovazione della didattica e della formazione, a tradurre in pratico il sapere teorico, i dati sulla disoccupazione, la crescita e il Pil farebbero invidia persino ai tanto ammirati sistemi scandinavi. In fondo il capitale umano non manca, il capitale sociale (per quanto deteriorato negli ultimi anni) resiste ed il capitale culturale poi non ne parliamo. Ma, proclami a parte, per tutto ciò servono creatività, innovazione e ricerca, in parole povere servono investimenti.

Ario Corapi

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Di Redazione Elzeviro.eu

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