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Il politicamente corretto è la morte del dialogo civile

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L’Occidente si sta stufando del politicamente corretto e vuol sentir dire pane al pane, vino al vino. Kyenge e Boldrini, bontà(?) loro, sono arrivate troppo tardi.

La civiltà propugnata dagli assertori, più o meno coscienti, del politicamente corretto, procura direttamente una inciviltà. Come tutti i mezzi che pongono nuovi ostacoli al dialogo, le barriere del politicamente corretto si alzano a dismisura. Nemmeno il muro disposto da Orban col beneplacito del popolo d’Ungheria che divide i magiari dal blocco ex jugoslavo si erige con tale rapidità. Con riguardo a questo muro, ad esempio, esso si è paragonato a quello di Berlino ed a quello israelo-palestinese. Si dimenticano così i muri, ben più grandi, che dividono popoli in costante lotta tra loro, e da secoli. Il Vallo di Adriano, a nord di Newcastle, difendeva la romana Britannia dai barbari scozzesi, così l’inutile Muraglia cinese aveva la velleità di preservare dalle invasioni mongole la Cina. Oggi ancora a Belfast muri di cemento dividono protestanti e cattolici, in una lotta fratricida e di nicchia che, guardando agli avvenimenti del mondo, fa sorridere perché totalmente occidentale ed europea: solo più un retaggio storico. L’unità di Cipro è inesistente: esiste la parte greca e quella turca, e la divisione è sancita anche qui da un cemento che si estende per centoventi chilometri. Ceuta e Melilla, avamposti spagnoli in Africa, sono divise dal Marocco da barriere, soldati, filo spinato e chi più ne ha, più ne metta.

Come mai gli assertori del politicamente corretto si svegliano solo quando ad essere minacciati sono i clandestini? I cretini del politicamente corretto difendono a spada tratta i migranti economici, che viaggiano massicciamente e che perlopiù sono maschi adulti e non profughi che scampano la miseria e la morte. «Non chiamateli clandestini», «siamo tutti clandestini», «aboliamo il reato di clandestinità», «non chiamateli immigrati ma migranti», «migranti in Italia», «gli italiani devono accogliere i profughi», «basta con l’egoismo di chi protesta contro i centri di accoglienza», «non è vero che c’è l’emergenza degli sbarchi». E’ una strategia, nemmeno troppo fine, per smorzare il dialogo con gli interlocutori. Se persino quel bonaccione di Jovanotti, il miliardario eterno bambino che canta con la zeppola, vuole “far danzare le idee” con il populista e retorico Salvini, non si capisce come possano ottenere così largo seguito le signore della politica che ti interrompono se dici negro, clandestino, immigrato. Tutte le parole del dialogo, poco alla volta, vengono etichettate come sbagliate, poco sensibili, scorrette. Proprio loro (sic) si fanno crociate di battaglie di lessico, confermando com’esso sia importante. E’ importante, confermiamo, ma è altrettanto importante che miserrimi figuri delle istituzioni non si azzardino a mutare il nostro imperituro e splendido vocabolario ad egoista esigenza politica. Ammesso poi che si possa definire politica un atteggiamento come quello di chi cerca di delegittimare il dialogo azzoppando le parole del dialogo.

Il candidato presidente repubblicano (finchè non lo buttano fuori dal partito) Donald Trump, paladino del politicamente scorretto in America, si stima che abbia il favore del 43% degli Americani. Ciò rappresenta il segno che la civiltà occidentale si sta finalmente stufando del politicamente corretto e vuole sentir dire pane al pane e vino al vino, le cose che vengono ripetute a tavola dalle famiglie. Se persino Salvini (sboccato diplomando in Storia da decenni) sta ottenendo successi eclatanti, andando dritto verso la volontà di sfidare Renzi alle prossime politiche, significa che agli italiani interessa sempre meno delle etichette del radicalismo chic, quanto piuttosto che i problemi siano affrontati e presi di petto. Speriamo che almeno questi politici unpolitically correct conservino qualche congiuntivo, e che imparino la differenza fra participio e gerundio…

Se già  William Safire nel suo Political Dictionary del 1970 definisce il politicamente corretto come «conforme al pensiero liberal o di estrema sinistra su questioni razziali, sessuali o ambientali», si intende che esso non possa essere il linguaggio della politica tutta, bensì solo di quella che dietro alle etichette, con la scusa di difendere il più debole, lo ghettizza ancora di più. 
Chiamare un negro nero, ad esempio, sarà solo in pubblico e non tra amici; comunque non tra amici ubriachi (anche alla presenza di un amico africano), e non gioverà alla lingua, poiché foriero di confusioni, in quanto la parola nero è usata in mille campi. Che poi l’ignoranza abbia voluto identificare la parola negro con il razzista americano nigger, dimenticando dolosamente l’origine latina della parola, è fatto che non può che confermare quanto sopra. 
Durante il tempo dell’inganno universale, dire la verità diventa un atto rivoluzionario. G.Orwell.

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Di Redazione Elzeviro.eu

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