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Sudditi e padroni: una storia italiana

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La fine dello stato sociale e la totale immobilità del popolo italiano.
 

di Matteo Roselli 

 

Era il 1898 quando in Italia venne istituita la cassa nazionale di assicurazione per invalidità e invecchiamento. Da quel momento in poi nel nostro paese vennero fatti numerosi passi in avanti sul fronte assistenziale e non solo, fino a raggiungere il picco negli anni 60′ e 70′ del 900′.

 

Dopo un ventennio di benessere e rafforzamento della classe media, il welfare state deve fare i conti con il debito pubblico e con una crescita che secondo gli esperti non può assorbire i danni generati da esso. Oltre a questo problema, va sottolineato l’effetto globalizzazione che in Italia assume i connotati peggiori: aziende che delocalizzano all’estero, elitè di potere che puntano a mantenere la propria posizione a discapito degli altri, fallimento (allo stato attuale) del processo di informatizzazione dei cittadini italiani, scomparsa della classe media e infine (recentemente) la ormai quasi sicura perdita del posto fisso.  

 

Queste conseguenze sono andate intensificandosi negli ultimi anni con l’avvento dei così detti “governi scelti dall’alto”. Partendo da Mario Monti e arrivando fino a Matteo Renzi vi è una linea comune, che con il sindaco di Firenze ha subito un impennata, grazie soprattutto al forte consenso.

 

In questi giorni si sta approvando il Jobs Act, la riforma che potrebbe dare la mazzata finale allo stato sociale ma anche e soprattutto allo stato di diritto. La riforma del lavoro Made in Renzi parte da questo assunto: se tutti i lavoratori non possono usufruire del posto fisso allora è meglio che non ne usufruisca nessuno. Un presupposto che ha un fondamento puramente strumentale, quando la vera base per una riforma del lavoro in Italia poteva prendere ben due strade differenti. La prima, che mira al mantenimento del contratto a tempo indeterminato, con conseguente allargamento del bacino di lavoratori che possano usufruire di esso. La seconda, in chiave contemporanea, mira alla fine del contratto a tempo indeterminato, ma con adeguate protezioni e garanzie per il lavoratore che si trova senza lavoro. Se sulla prima posizione si sono espressi già ampiamente i sindacati, sulla seconda è necessario specificare il contesto che renderebbe possibile l’attuazione di questa riforma.

 

In qualsiasi paese dove vige il contratto flessibile (vedi Scandinavia, Nuova Zelanda ecc.) non si rimane mai effettivamente senza lavoro. Generalmente, una volta perso il lavoro precedente, si riceve supporto dallo stato o dalle agenzie private per la ricerca istantanea di un’altra attività. Questo processo si risolve nei casi limite entro una o due settimane. In Italia questo non avviene e non avverrebbe. Ad oggi le aziende italiane assumono con fatica e dove assumono facilmente è grazie ai così detti “contratti in nero legalizzati” (vedi ad esempio i contratti a chiamata). Poi ci sono naturalmente delle eccezioni, che però sono percentualmente irrilevanti rispetto alle restanti situazioni.

Una soluzione semplice al problema sarebbe innanzitutto la semplificazione dei contratti di lavoro. Attualmente in Italia possiamo annoverare ben 50 forme contrattuali. Per raggiungere una situazione ideale per la flessibilità, bisognerebbe ridurre del 95% le forme attuali di lavoro. Già con questo provvedimento si ridurrebbero le possibilità di sfruttamento da parte del datore di lavoro nei confronti del malcapitato lavoratore di turno. Oltre a questo, andrebbe istituita una riforma che in questo caso richiede più tempo per poterne apprezzare i risultati, ovvero la ricollocazione delle tasse. Ad oggi la pressione fiscale pesa tutta sulle imprese e sui contribuenti che costituiscono l’ossatura della domanda. Spostando questa pressione sui grandi patrimoni detenuti in Italia o all’estero e tagliando inoltre diverse spese inutili (grandi opere, partecipate, super-stipendi ecc.), si potrebbe far ripartire i consumi, dare una boccata d’ossigeno alle aziende presenti sul territorio e infine attrarre aziende dall’estero.

 

Ma nel Jobs Act tutti questi passaggi sono inesistenti. Allo stato attuale il testo equivale ad una guerra tra imprenditori e lavoratori dipendenti. Basta scorgere le possibilità di reintegro del lavoratore in caso di crisi economica, oppure la ridicola regola che sotto i 15 dipendenti permette forme di licenziamento con indennizzi insufficienti per il lavoratore. Per capire fino in fondo questo punto bisogna guardare i movimenti di molte grandi aziende attraverso un esempio. L’azienda che per comodità chiameremo “Papero” ha 50 dipendenti per la maggior parte adulti e con esperienza, che ricevono stipendi adeguati alla loro anzianità. Ma il capo di “Papero” è stanco di pagare così tanto i propri dipendenti, così com’è stanco di non poterli licenziare liberamente (tradotto non ha potere di minaccia), allora decide di spacchettare l’azienda “Papero” in 5 aziende al di sotto dei 15 dipendenti gestite da parenti o amici stretti, riuscendo senza problemi a raggiungere il proprio obbiettivo. È quindi palese come questa riforma penda dalla parte degli imprenditori, che sono pronti ad approfittarsi dei propri lavoratori dipendenti.

 

Ma data la gravità del Jobs Act, dove sono le proteste delle classi colpite? Dopo lo sciopero del 12 Dicembre è sceso un silenzio raccapricciante nella protesta contro questa riforma. Sembra quasi che i lavoratori siano diventati ormai sudditi dei propri datori di lavoro, oppure assuefatti dal proprio governante. Quelle poche persone che tentano di alzare la testa vengono subito isolate e zittite dallo strapotere dei padroni delle aziende italiane o dai loro stessi compagni di lavoro.

 

In questa situazione è altamente probabile la fine dello stato sociale, che ha visto molte persone lottare e addirittura morire per gli stessi ideali che ora vengono calpestati senza ritegno dall’ultimo arrivato.

 

È giunto il tempo di creare un’alternativa. 

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Di Redazione Elzeviro.eu

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