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Un nuovo indicatore per rivoluzionare la gestione della pandemia, intervista al professor Bizzarri

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L’epidemia da coronavirus ha causato finora migliaia di vittime e i danni economici si sommano ai lutti e alle sofferenze spirituali che i cittadini di tutti gli Stati del mondo hanno già sofferto.

di Costantino Ceoldo

L’Italia non fa eccezione in tutto questo e, anzi, il nostro amato Paese continua a trovarsi in uno stato di eccezione che sembra non avere mai fine mentre la “campagna vaccinale” avanza zoppicando malgrado proclami roboanti.

La lotta alla pandemia si sviluppa lungo varie direzioni, una delle quali è la modellizzazione statistica dello sviluppo della malattia, al fine di capire quali scenari ci attendono e se le misure di contenimento adottate sono veramente efficaci.

Ci sono stati (e ci sono ancora adesso) molti analisti, giornalisti e blogger che hanno posto in dubbio la validità dell’approccio occidentale ma anche la comunità scientifica non è completamente omogenea nei suoi giudizi su certe misure, per esempio l’impiego generalizzato della quarantena che pone in isolamento i sani oltre che gli ammalati. John Joannidis della Stanford University avanza dubbi sulla reale efficacia di questa opzione generalizzata ma anche l’Italia ha cercato di esplorare direzioni alternative.

In un recente articolo

apparso sulla prestigiosa rivista Nature, il gruppo di ricerca del professor Mariano Bizzarri dell’Università “La Sapienza” di Roma, propone l’uso di un nuovo indice epidemiologico RI, più fine e predittivo di quello fin qui usato e che tanto condiziona le scelte di governi e amministrazioni locali.

Il professor Bizzarri, il cui impressionante curriculum varia dall’oncologia alla medicina spaziale e non solo, ha acconsentito di rispondere alle nostre domande su questa sua particolare ricerca. L’argomento non è facile ma ci siamo sforzati di renderlo accessibile ai lettori senza per questo impoverirlo della sua profondità scientifica.

D) Potrebbe ricordare ai nostri lettori che cosa si intende per modello statistico e perché è necessario usare anche la statistica per studiare un’epidemia?

Il modello statistico permette di definire una relazione – espressa in termini matematici – tra i parametri quantitativi di un fenomeno che sono i più adatti a descrivere quel fenomeno e la sua dinamica, cioè l’evoluzione nel tempo. Questo approccio consente di a) individuare i fattori che possono modificare i parametri e quindi l’evoluzione del fenomeno; b) prevedere le fasi successive che assume il processo in oggetto, nel nostro caso l’epidemia.

D) Quanti modelli sono stati proposti per lo studio di questa epidemia e quali, tra di essi, si sono rivelati i migliori?

Numerosi modelli sono stati proposti ma a nostro giudizio – mio e dei colleghi con cui abbiamo dato corpo allo studio poi pubblicato su Nature Scientific Report– nessuno coglieva i parametri salienti dell’epidemia da COVID.

D) Perché la distribuzione spaziale della pandemia in Italia rende difficile determinare il suo andamento nel tempo?

In realtà la ineguale distribuzione è solo apparente e dipende – per l’appunto – dalla scelta errata dei parametri descrittivi del modello. Infatti, se si considera l’evoluzione nel tempo del rapporto tra ricoverati in terapia intensiva (Fig.1) si osserva che tutte le regioni presentano un andamento sovrapponibile. Abbiamo così capito che il parametro principe per capire l’evoluzione dell’epidemia, ed il principale indice della reale gravità della stessa, è proprio il numero dei ricoveri in terapia intensiva.

Altri parametri, se non inseriti in modello complesso, non sono di immediata interpretazione e si prestano ad essere utilizzati in modo errato o strumentalizzato.

 

Fig.1 – Andamento dell’epidemia in Italia senza la Lombardia (a sinistra) e andamento nella sola Lombardia (a destra) fino a maggio 2020

D) Che cos’è l’indice R di cui tanto spesso ci parlano i nostri media e che condiziona le scelte dei governi nel gestire l’epidemia?

L’indice R (ovvero il numero di riproduzione di base) – conosciuto come R0 – indica la potenziale trasmissibilità di una malattia infettiva. Esprime il numero di nuovi casi sintomatici “prodotti” da ogni nuovo singolo caso infetto e costituisce quindi il numero atteso di nuove infezioni originatesi da un singolo individuo nel corso del suo intero periodo di infettività, in una popolazione interamente suscettibile all’inizio di una epidemia o in contesti in cui non siano stati presi provvedimenti per limitare il contagio.

Questa definizione fa subito emergere i limiti del parametro stesso dato che 1) dà per scontato che la popolazione sia tutta ugualmente sensibile; 2) non tiene conto delle limitazioni (quarantena, mascherine, vaccinazioni etc.) adottate; 3) ha un valore “statico”, non fornisce cioè informazioni sulla velocità con cui un’epidemia si diffonderà attraverso una popolazione.

L’indice non ha nessun valore predittivo, ma è solo retrospettivo e soprattutto non aiuta a capire l’evoluzione della gravità della malattia. Di fatto l’indice è stato universalmente criticato come inadeguato e di ciò fanno fede numerosissime pubblicazioni scientifiche. Ciò nonostante, è stato acriticamente (ed irresponsabilmente) utilizzato dalla politica e dalle amministrazioni sanitarie come parametro principale di monitoraggio dell’epidemia.L’incoerenza nel nome e nella definizione del parametro R0 è stata potenzialmente una causa di incomprensione del suo significato.

D) Nell’articolo lei e la sua squadra proponete un nuovo e diverso indice RI. Può spiegarci la formula che lo esprime e perché secondo voi il nuovo indice sarebbe più adatto allo scopo?

L’indice che noi proponiamo è un indice “dinamico” proprio perché mette in relazione la velocità con cui varia il numero degli infetti con la velocità con cui cambia il numero dei guariti. Tale rapporto (che è un rapporto tra derivate) descrive graficamente un andamento a forbice (Fig.2).

Fig.2 – Andamento del numero degli infetti e di quello dei guariti in Italia fino a settembre 2020

Quando si verifica la decussazione tra la curva dei guariti (che crescono) e quella degli infetti (che diminuiscono) si è allora certi che l’epidemia sta scemando.

D) Possiamo dire allora che l’adozione di questo nuovo indice RI permetterebbe quindi di migliorare la gestione dell’epidemia, almeno in Italia?

Assolutamente sì, perché consente di capire la dinamica del processo e di individuare il momento in cui la curva deflette.

La semplice osservazione del tasso di infettività (numero di infetti rispetto al numero di tamponi) non ha nessuna utilità, anche perché l’attendibilità dei test utilizzati è gravata da un elevato numero di falsi positivi e negativi che rendono ben poco affidabile il parametro.

Tra parentesi, è per questo che il tasso di contagiosità tende a presentare continue variazioni giornaliere e dà l’illusione che l’epidemia una volta aumenti e un’altra diminuisca nell’arco di sole 24 ore. Ovviamente è un dato palesemente falso. Eppure, è su questi dati inesatti che è stata costruita la narrativa mediatica dell’epidemia.

D) Il modello da voi usato permette anche di individuare con una certa confidenza l’inizio temporale dell’epidemia nel nostro Paese?

Sì, il calcolo retroattivo ha permesso di collocare l’inizio della pandemia in Italia a settembre del 2019.

D) Se questo coronavirus è così infettivo come ci viene detto ed inoltre circolava in Italia già dalla seconda metà del 2019, come mai il terribile scenario di Bergamo e Brescia si è verificata solo a marzo 2020? Perché non ci sono state emergenze simili in altre parti d’Italia e magari anche prima?

Questo resta un enigma. Perché la Lombardia sia stata colpita tanto duramente merita un’indagine specifica e la valutazione di fattori concomitanti che hanno reso la popolazione anziana di quel territorio tanto suscettibile alla forma più grave della malattia.

D) In base a quello che voi scrivete, sembrerebbe che l’epidemia in Italia abbia raggiunto il suo massimo ad ottobre 2020. Non avrebbe dovuto quindi progressivamente esaurirsi? Come mai, in questo nostro aprile 2021, viviamo ancora in stato di emergenza, secondo uno scenario da fine del mondo?

Non esistono modelli che possano prevedere se un’epidemia – una volta esaurita una prima fase – possa poi riattivarsi. È frequente che ciò accada con i virus influenzali (che tra l’altro, come il COVID, mutano velocemente), ma non obbligatorio.

In realtà la seconda ondata non era prevedibile: poteva accadere, come è successo, ma non era obbligatorio che ciò avvenisse. In quanto allo scenario “apocalittico”, credo che vada ridimensionato ponendo attenzione al vero parametro di gravità: il numero dei ricoveri in terapia intensiva. Credo però che un paese moderno con oltre 60 milioni di abitanti possa gestire una occupazione media di circa 3000 malati in terapia intensiva senza per questo abbandonarsi alla disperazione cieca ed al terrorismo mediatico che quotidianamente dobbiamo sopportare.

D) Ci sono state delle reazioni da parte di politici e scienziati alle vostre idee? Oppure il vostro lavoro è rimasto pressoché ignorato?

Purtroppo – a parte l’apprezzamento di alcuni colleghi, tra cui l’epidemiologo John Ioannidis della Standford University– le autorità sanitarie e politiche non hanno recepito proprio nulla. Ma la cosa non ci sorprende più di tanto.

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