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Ecco come i giganti del web sfruttano i dati grazie ai “termini e condizioni”

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Spesso parliamo di tecnologia alludendo all’enorme progresso che ha portato nelle nostre vite. Quanto possiamo però definirlo tale?

di Matilda Pala

Noi, generazione ‘90, ricordiamo quanto fosse bello giocare in cortile, aspettare di andare al parco per nasconderci dietro al primo albero senza essere scoperti.

Proprio noi, che abbiamo fatto la storia saltando la corda e inventato mappe del tesoro nascondendo le caramelle, non riusciamo a concepire come le nuove generazioni siano così dipendenti dalla tecnologia. Sì, dipendenti è sicuramente la parola giusta.

Bambini di sette anni sui passeggini che con grande abilità, ammettiamo di essere quasi invidiosi, navigano nel word wide web (conosciuto come www) senza limite alcuno, scaricando nuove applicazioni senza informazioni a riguardo.

Dovremmo tutti leggere ‘termini e condizioni’

ma se nessuno ci insegna a farlo si fanno avanti l’incoscienza e la spensieratezza.

Chi ha voglia di spiegare a un bambino che l’applicazione che ha appena scaricato con tanta semplicità ha i server in chissà quale parte del mondo e che il trattamento dei suoi dati non sarà regolato da alcun curatore?

Dovremmo sapere tutti che il General Data Protection Regulation (comunemente detto GDPR), entrato in vigore il 23 maggio 2018, vale solo in Europa e che sono in atto fior fior di sentenze tra potenze mondiali per riuscire a far valere il diritto sui dati, ma nessuno ha voglia di prestarci troppa attenzione.

L’utente medio, categoria in cui sentiamo di doverci collocare, nell’ormai lontano 2018 era infastidito nel dover accettare, su ogni piattaforma, le nuove direttive sulla privacy.

Fu così che la ‘scocciatura’, se così vogliamo definirla, di modificare le disposizioni dei dati fu invece un consenso alla tutela che portò con sé un enorme progresso giuridico.

Facciamo però un passo indietro

Forse non tutti sanno che i nostri dati si dividono in due grandi categorie, dati sensibili e dati personali.

I dati personali fanno riferimento a informazioni che identificano direttamente un individuo, quindi nome, cognome, numero di telefono. Essi contengono anche dati pseudonimi o ‘informazioni non direttamente identificanti’ che non identificano gli utenti in modo diretto, ma definiscono i comportamenti individuali quali le preferenze di acquisto.

Quali sono però i dati per così dire ‘spinosi’?

Questi sono i dati sensibili, informazioni che rivelano l’origine razziale o etnica, opinioni politiche, credi religiosi o filosofici, dati genetici e, come si suol dire ‘the last but not the least’, dati che riguardano la salute e la vita sessuale di un individuo.

Siamo quindi di fronte a un nuovo sport olimpico, accettare di fornire l’accesso a tutti i nostri dati a scopo di lucro da parte di aziende diventate ormai onnipresenti e onniscienti.

Non ci chiediamo

perché un gioco debba aver accesso alla nostra fotocamera, ma ci crogioliamo nel vedere che questo è gratuito e chissà per quanto ancora lo sarà.

Ecco che possiamo ora parlare di Cambridge Analytica, azienda di consulenza e marketing online collegata a Facebook, comunemente vista come vaso di Pandora delle informazioni di due miliardi di utenti attivi sulla piattaforma.

Qual è il suo scopo? Definire mediante una minuziosa indagine di origine psicometrica, quindi lo studio del comportamento degli individui, le tendenze di acquisto e le preferenze degli utenti online.

Cosa ricaverebbe però la piattaforma da questo agglomerato di dati?

In primis una classificazione dell’utente a scopo promozionale, ma ancora più importanti sono i profitti derivanti dalla vendita di queste informazioni a terze parti.

Non solo siamo studiati e schedati

ma i nostri profili sono monetizzati e venduti. Ecco che riecheggia nella nostra mente la frase ‘Facebook è gratis e lo sarà sempre’.

Che dire, sicuramente una comunicazione più che vincente.

Arrivati a questo punto iniziamo a chiederci cosa ci sia di tanto importante nel nostro profilo Facebook da far tanto gola.

Like, post, commenti, ricerche sono gli ingredienti principali. Se poi uniamo le informazioni derivanti dalle dating app e le applicazioni di messaggistica abbiamo fatto bingo.

Avendo ora questo quadro generale di come le nostre informazioni possano circolare liberamente sull’iperuranio digitale, siamo così sicuri che l’internet sia un mondo protetto e sicuro per le nuove generazioni?

A voi le conclusioni.

 

 

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