Tra chi considera ormai certa una prossima seconda ondata e chi auspica l’utilizzo di TSO e prelievi coatti per presunti positivi asintomatici. Insomma sembra che il potere abbia compreso i numerosi benefici che si possono ottenere attraverso il prolungamento dello stato di paura sulla popolazione. Uno su tutti: il controllo sociale.
Abbiamo quindi deciso di approfondire questo tema con la scrittrice e giornalista Enrica Perucchietti, co-autrice del recente saggio “Coronavirus, il nemico invisibile“, edito da Uno Editori.
Ritengo che l’emergenza sanitaria sia stata strumentalizzata per stringere le maglie del controllo sociale e della sorveglianza tecnologica, introducendo provvedimenti liberticidi e richiedendo la sottomissione acritica nei confronti dell’autorità. Siamo di fronte a quanto descritto dal filosofo Giorgio Agamben, ossia la creazione di uno “stato di paura”.
Per fare tutto ciò è stata utilizzata una delle tecniche auree dell’ingegneria sociale: la teoria dello shock. L’opinione pubblica in questi mesi è stata infatti terrorizzata, sottoposta a bombardamento quotidiano e capillare tramite una narrativa virtuale, contradditoria e catastrofistica basata sulla paura e si è indotta l’idea fallace che per tornare a sentirsi sicuri sia necessario limitare le libertà e la privacy, rischiando di legittimare un grande fratello orwelliano.
Si è creato uno stato di follia generalizzato (dall’assalto compulsivo ai supermercati alla delazione) grazie a quella che il coautore del saggio, l’avv. Luca D’Auria definisce una “criminologia sanitaria”. La paura è infatti uno dei tanti tasselli nel processo di manipolazione sociale che il potere adotta da secoli. Si induce una crisi o la si strumentalizza per portare avanti politiche che sarebbero altrimenti impopolari ma che la percezione dello shock, indotto o reale che sia, legittima.
In stato di paura l’opinione pubblica si sente disorientata, smarrita, come il prigioniero vittima di tortura. La popolazione sotto la minaccia di pericolo o dopo un forte trauma, necessita di una guida in quanto ha “perso la bussola”, si sente paralizzata dal terrore al punto da accettare qualunque proposta o intervento venga dall’alto e sarebbe stato altrimenti impensabile in un ordinario stato delle cose.
Ancora una volta le previsioni ottimistiche degli addetti ai lavori si sono scontrate con una consapevolezza crescente da parte dell’opinione pubblica che, per diversi motivi, ha deciso in questo caso di non scaricare la App. Credo che i motivi siano molteplici, dalla diffidenza nei confronti della App al timore di finire in una forma di quarantena endemica, dall’insofferenza nei confronti del grande fratello elettronico, alla graduale consapevolezza di essere stati manipolati, dall’indifferenza al fatto che non tutti, in particolare gli anziani, sanno gestire certe applicazioni tecnologiche.
Inoltre molti hanno intuito che possiamo adottare anche dispositivi di controllo ma ci manca l’efficienza della Cina o della Corea del Sud nel gestire i dati e i possibili contagiati. Pensiamo al caso della signora di Bari che è finita “prigioniera” di Immuni: costretta alla quarantena per il presunto contatto con un soggetto positivo, senza che nessuno le facesse il tampone.
Trovo surreale e al contempo inquietante che venga auspicato il ricovero coatto e che si cerchi di mantenere viva la narrativa catastrofistica per giustificare misure e provvedimenti repressivi e anticostituzionali. Credo che l’intento sia quello di mantenere il clima di paura fino all’arrivo del vaccino e il fatto che si vada verso la proroga dello stato di emergenza al 31 dicembre lo conferma.
Come in passato, non possiamo non prendere in considerazione che la tutela della salute possa essere strumentalizzata e utilizzata per imporre limitazioni della libertà, abituando i cittadini a restrizioni sempre più invasive della libertà e della privacy o ad accettare imposizioni assurde o incostituzionali. Dovremmo invece fare molta attenzione alle misure che legittimiamo in stato di eccezione perché oltre a creare dei precedenti rischiamo che tali provvedimenti non vengano sospesi una volta finita l’emergenza.
Può e devo farlo attraverso un’informazione alternativa di qualità. Può inoltre conquistare una propria autorevolezza derivante dal rispetto dei lettori e della deontologia. Mi spiego: si può fare una informazione alternativa e controcorrente, etica e documentata, seguendo i doveri e le regole della deontologia giornalistica, offrendo un servizio di eccellenza ai propri lettori, senza cedere ai clamori, al sensazionalismo o al gossip, né al becero cospirazionismo o ai toni accesi da squadrismo del web.
Si può criticare il pensiero unico e curare inchieste in modo serio, obiettivo ed equilibrato, mostrando come i professionisti dell’informazione non siano solo i media mainstream che si autoproclamano tali, ma chi lavora per la verità e non per garantire l’infallibilità del sistema. Questi ultimi sono semmai gli eredi dei falsificatori del Miniver orwelliano e infatti le varie task force sono un’eco sbiadita e parossistica del Ministero della Verità. Sono il tentativo di creare un’informazione certificata (le notizie col bollino) e avere il pretesto per censurare i contenuti difformi.
Temo che soffriremo le ripercussioni dello shock collettivo e dei provvedimenti intrapresi a livello emotivo, sociale e soprattutto economico. Come mostriamo nel libro, i prossimi mesi vedranno inoltre una adozione graduale del paradigma digitale: ritengo, come già mostravo in Cyberuomo(Arianna Editrice) che una delle sfide che ci attendono si giochi sul campo del transumanesimo e del post-umano.
I mesi di emergenza sanitaria hanno spinto verso l’adozione di modalità di vita e di lavoro in una direzione sempre più virtuale. L’esaltazione per una tecnologia in apparenza democratica porta però con sé il rischio di creare una società distopica, ipermeccanizzata e ipercontrollata di cui abbiamo avuto solo un assaggio nei mesi di lockdown.
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