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I limiti intellettuali di Salvini: ecco perché non vince nelle grandi città

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L’esito delle elezioni Regionali è una sconfitta per la Lega e per le ambizioni di Matteo Salvini. Inutile che il Segretario del Carroccio e a cascata i suoi tesserati tentino una goffa arrampicata sugli specchi con frasi tipo “eh ma in Emilia è già tanto arrivare a giocarsela”.

di Gabriele Tebaldi

Poche balle, i vertici della Lega erano convinti di poter vincere queste elezioni e dare conseguentemente una spallata all’esecutivo Conte bis. Ed è proprio nella negazione della sconfitta e nella totale assenza di una minima autocritica da parte di Matteo Salvini che risiedono tutti i limiti della Lega.

“Rifarei tutto dall’inizio alla fine, anche la citofonata”, ha infatti affermato il leader leghista. Forse Salvini così facendo intende essere coerente con la figura di capo politco che si è creato nel tempo, forte e sicuro di se, anche degli errori. Eppure la comprensione dei propri limiti e il tentativo di superarli rappresenta l’unica strada per un partito come la Lega che, altrimenti, sarà destinato a sgonfiarsi progressivamente nei numeri.

Partendo dai dati

relativi alle elezioni emerge con chiarezza per esempio come la Lega sia riuscita ad attecchire in determinate aree geografiche, ovvero le “campagne”, perdendo invece in tutte, o quasi, le aree metropolitane. Il netto successo nell’Italia “profonda”, fuori dalle vetrine dei centri città, è ormai una costante del partito (ex) secessionista, sintomo che Matteo Salvini è in grado di parlare ad una determinata categoria in ogni angolo dello stivale.

Costante pare essere d’altra parte l’incapacità della Lega di affermarsi nei grandi centri urbani, un fattore che, almeno nelle ultime regionali in Emilia Romagna, ha segnato l’insuccesso del partito guidato da Salvini. Proviamo a capirne il motivo. Matteo Salvini è la Lega hanno posto in cima all’agenda politica ed elettorale il tema della sicurezza, di cui l’immigrazione rappresenta un aspetto centrale.

Tutto il resto appare secondario: dalla politica economica nazionale, ai rapporti con l’Unione europea fino al ruolo geopolitico dell’Italia.

E’ come se la Lega

stesse dicendo implicitamente a suoi potenziali elettori: “Ehi amico, la tua disoccupazione, la tua mancanza di speranze nel futuro e la crisi ventennale italiana dipendono unicamente dall’immigrazione incontrollata. Se mi voti, risolvo questo problema e a cascata tutto il resto”. Si tratta di una narrativa politica legittima che tuttavia può attecchire solo dove il problema migratorio è realmente percepito come prioritario.

Osservando più puntualmente i dati si può notare che, a dispetto delle aspettative, sono i piccoli comuni, e non le grandi città, i luoghi dove la percentuale di immigrati residenti pesa di più sul totale della popolazione. Sul podio di questa classifica troviamo infatti Pioltello, Baranzate e Porto Recanati, dove per tutti e tre la percentuale di immigrati residenti supera abbondantemente il 20% della popolazione. A Parma, Modena e Reggio Emilia la percentuale non supera invece il 16%, a Bologna arriva appena al 9%.

A fronte di questi numeri

è normale che il messaggio leghista riesca ad attecchire solo in determinate aree geografiche. Eppure un partito che si vorrebbe nazionale dovrebbe aspirare a qualcosa di più. Un salto di qualità che potrebbe arrivare solo con l’uscita dall’ossessività monotematica migratoria che, nei centri urbani, è sì percepita come un problema da gestire, ma come uno fra tanti.

La Lega si trova così di fronte ai suoi congeniti difetti di fabbricazione

Un partito nato secessionista e antinazionale, restauratosi improvvisamente nazionalista ed euroscettico, per poi ricalibrarsi verso un federalismo riformista ed un europeismo prudente. Il tutto condito da una perentoria adesione ai principi del liberismo economico (l’ha ribadito Salvini stesso recentemente “lo Stato meno fa e meglio è”), e da uno smaccato atlantismo e fedeltà verso gli Stati Uniti d’America. Appoggio incondizionato all’aggressiva politica estera americana verso il mondo arabo, anche a discapito degli evidenti interessi commerciali nazionali (come nel caso dell’Iran).

Ed è forse questa ricerca spasmodica di imitare il proprio modello d’oltreoceano ad aver fatto calibrare l’agenda elettorale della Lega sull’unico tema che riesce ad affrontare con coerenza dalla sua nascita, ovvero quello migratorio. “Prima gli italiani” è d’altronde una rivisitazione dell'”America first” di Trump. Eppure il tycoon è riuscito a vincere le elezioni proprio perché ha saputo andare oltre l’America profonda.

Lo slogan americano, nato ben prima di quello leghista

Trump non ha mai avuto problemi

a bacchettare apertamente la grande azienda di turno che faceva i suoi interessi a discapito della comunità, lo stesso non si può dire di Salvini sul caso, per esempio, Benetton – Autostrade. Trump ha davvero realizzato un maxi taglio delle tasse a deficit, anche se questo ha significato andare a muso duro con i vertici della Federal Reserve.

In Italia è bastato Giovanni Tria per fermare le aspirazioni di Salvini. Infine, Trump sembra avere davvero un piano per la futura collocazione americana nel mondo, negli interessi del proprio Paese.

E in questo la geopolitica della Lega e di Salvini si è fermata invece ai confini della Padania.

 

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Di Redazione Elzeviro.eu

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