Politica interna

Il grande paradosso: la modifica dei decreti sicurezza certifica la morte della sinistra

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All’interno dei decreti sicurezza è presente una seconda parte meno conosciuta; si tratta di articoli che scoraggiano ogni forma di manifestazione sindacale, mediante sanzioni aspre e fortemente repressive. Temi che – come suffragato dalle modifiche del governo – per la sinistra di oggi sono totalmente irrilevanti rispetto alla questione migratoria.

Esiste una narrazione, costantemente rinvigoritasi negli ultimi anni, secondo la quale la grande dicotomia “destra-sinistra” sarebbe soltanto una reliquia degna dei libri di storia. Un ferrovecchio del passato. Un retaggio grammaticale privo di alcuna attualità.

E non si parla esclusivamente di lapidarie sentenze da bar con cui condannare sbrigativamente tutta classe politica di corruzione e inefficienza. No, questa teoria infatti, viene ripresa sovente anche da opinionisti e politologi, ma soprattutto da tutti gli ideatori di nuovi soggetti politici.

L’arcano amletico che sorge spontaneo dunque è: ma questo “elogio” funebre della storica contrapposizione ideologica, corrisponde o meno alla realtà dei fatti? Una domanda non certo agevole, alla quale però sarebbe opportuno rispondere con un nì.

Una mezza verità

Già, perché sebbene nella maggior parte dei casi – in particolar modo quello legato ai nuovi soggetti politici – funga da abile espediente per smarcarsi dal DNA e dalle responsabilità dei partiti tradizionali (assicurandosi facilmente il sostegno elettorale dei delusi o l’approvazione in diretta televisiva), questo argomento muove da una mezza verità, spesso trascurata.

Si tratta di una verità mutilata, poiché l’avvento dell’era post-ideologica non ha compromesso entrambi gli schieramenti. La destra infatti, seppur con i fisiologici accorgimenti legati al corso di una nuova era politica, è ancora perfettamente integra e fedele a sé stessa: sempre conservatrice sul versante civico-culturale e sempre propensa al liberismo sul versante economico.

Ad essere sparite dai radar al contrario, sono tutte le possibili sfaccettature di un pensiero “di sinistra”, definitivamente fagocitato (con la consapevolezza dei vertici e l’inconsapevolezza della base) da una declinazione più sofisticata, salottiera e dirittocivilista della destra. Una condizione grottesca, che attraverso la recente modifica dei decreti sicurezza ha offerto una tangibile prova del nove.

E’ trascorsa una settimana abbondante dallo storico provvedimento. Quello tanto bramato dall’elettorato in orbita PD, così come da tutto quel coscienzioso alveo intellettuale abituato a semplificare l’analisi dei fenomeni migratori con lo slogan “restiamo umani”. Un provvedimento necessario, dapprima per cancellare l’eredità leghista con un’opera di damnatio memoriae e successivamente per consentire al sodalizio governativo di proseguire a vele spiegate.

Il traguardo identitario

Nell’arco di questi giorni, oramai abbastanza significativi per formulare l’analisi che seguirà, la grande comunità progressista si è prodotta in sperticate esultanze e inni di gioia. La percezione diffusa è stata quella del raggiungimento di un imprescindibile traguardo identitario, una riforma che potesse incidere sull’esecutivo un timbro ideologico indelebile.

Ebbene, è proprio questo giubilo diffuso a dare la dimensione del cambio di prospettiva (sarebbe più corretto chiamarla mutazione genetica) di cui è stato vittima il popolo della sinistra. Una gioia che, se rapportata al totale disinteresse verso il lato oscuro dei decreti gialloverdi, diventa la vera e propria cartina di tornasole di un mastodontico cortocircuito.

 

Da una parte, un’intera comunità che – con la fierezza snob di un Nanni Moretti dei bei tempi – ama ancora definirsi “di sinistra”, ha polarizzato la propria attenzione sull’elemento più conosciuto della riforma salviniana, ovverosia quello che concerne la gestione dei flussi migratori. Dall’altra, nessuno tra dirigenti, militanti o – i tantissimi – giornalisti simpatizzanti, ha mostrato un’oncia di contrarietà per la mancata abrogazione (o modifica) degli articoli mai approfonditi dal mondo dell’informazione.

Se in questo momento non riuscite a focalizzarli, non sentitevi in difetto. A distanza di due anni infatti, è una percentuale davvero esigua quella dei cittadini consapevoli del fatto che, nei tanto vituperati decreti, si celino delle norme prive di attinenza rispetto ai temi dell’accoglienza, della protezione umanitaria o delle multe alle ONG.

La parte oscura dei d.l. Sicurezza

La seconda parte del d.l. accantona il tema migratorio, per occuparsi più strettamente dell’ordine pubblico. All’interno di queste righe sono previsti diversi articoli volti a scoraggiare ogni sorta di manifestazione o protesta sindacale, mediante l’inasprimento di alcune sanzioni già previste dal codice penale.

L’occupazione delle fabbriche (e di qualsiasi altro immobile), riscrivendo in parte l’art. 633 c.p. potrà tradursi in un periodo di detenzione compreso tra i due e i quattro anni, oltre ad una sanzione pecuniaria superiore ai 2.000 euro; per quanto concerne i blocchi stradali invece, è stata disposta la creazione di una fattispecie delittuosa ad hoc (applicabile ad ogni manifestazione non autorizzata) con massimi edittali di 6 anni per i partecipanti e addirittura 12 per gli organizzatori.

E’ abbastanza evidente come tutte le più tradizionali forme di protesta usate dai lavoratori per mostrare il proprio malcontento e rivendicare i propri diritti, si trovino di fronte ad una inibizione dal retrogusto fortemente repressivo.

Al punto che, in caso di delocalizzazione e conseguente chiusura dell’impianto, una persona incolpevolmente licenziata dall’oggi al domani diventerebbe propensa a declinare la partecipazione al presidio, pur di non mettere la pietra tombale su una condizione socioeconomica già ampiamente pregiudicata. Insomma, un’intimidazione in piena regola. Un deterrente alla rivendicazione di un diritto su cui la Repubblica sostiene di essere fondata: il diritto al lavoro.

Il termine “sinistra” come involucro vuoto

Come è possibile dunque che una corrente politica, la quale lessicalmente si richiama a ideologie e movimenti forgiati dalla lotta di classe (i quali avevano nella sicurezza del lavoratore e nella dignità dei salari i loro principali punti programmatici), abbia totalmente trascurato questa parte del decreto? Com’è possibile che, anche tra gli elettori, non ci sia stata una sola voce fuori dall’unanime coro vittorioso?

Com’è possibile che oggi la battaglia identitaria corrisponda alla volontà di sopprimere ogni tentativo di regolamentazione dei flussi e non a quella di espungere i suddetti articoli? All’indifferenza nei confronti delle pene delle classi proletarie, fa da inatteso contraltare la necessità di avallare un fenomeno che genera inevitabilmente: aumento incontrollato di domanda lavorativa, competizione al ribasso, disoccupazione e guerre tra poveri.

Un paradosso emblematico della truffa ideologica dei nostri tempi. La sinistra contemporanea, contaminata da anni e anni di liberismo, ha cambiato le sue priorità e i suoi motivi di indignazione, mantenendo inalterata semplicemente la dicitura ufficiale: una definizione svuotata di significato, che usa l’umanitarismo e l’accoglienza come foglie di fico.

Una sinistra così inconsapevole della propria storia, delle proprie radici e del proprio retaggio, da ripudiare i pochi non allineati con l’appellativo di “rossobruni”; in pratica, è come se gli ortodossi di un tempo si fossero trasformati negli eretici di oggi. Eppure, non è così. Non è Marco Rizzo a strizzare l’occhio alle destre: è il popolo di sinistra a fregiarsi di un titolo senza conoscerne il significato.

 

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Filippo Klement

Classe 1990, ha studiato giurisprudenza, a latere un vasto interesse per la storia contemporanea e la politica.

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