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L’elezione dei presidenti di Assemblea: la crisi Cinque stelle

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La decisione sull’elezione del presidente della Camera dei Deputati è stata alfine presa: qui senza il necessario ausilio dei voti grillini, si è rispettata la consuetudine di affidare lo scranno più alto di palazzo Montecitorio, la terza carica dello Stato, ad un membro del partito di minoranza nell’alveo della coalizione uscita vincitrice dalle elezioni. 
Il problema è che, trattandosi di una coalizione di centrosinistra, l’esponente in questione appartiene ad un’area di sinistra radicale con connessioni non trascurabili con la sinistra extraparlamentare ed estremista. La professionalità della signora in questione, l’on. Laura Boldrini, non è da contestare: giornalista insignita di numerosi premi, inviata di guerra in ogni dove ed impegnata presso le Nazioni Unite, la signora ha però bypassato le primarie del centrosinistra essendo stata imposta leninisticamente dall’alto. Nicola Vendola ha infatti ritenuto che una tale personalità dovesse essere ritenuta superiore agli altri partecipanti alla competizione, in un’ottica ben poco egualitaria e prettamente “di sinistra”. Un po’ come è successo con tutti gli eletti del Pdl, tra l’altro… 
Che garante delle istituzioni democratiche in qualità di terza carica dello Stato e dell’indipendenza ed onorabilità della Camera bassa sia una parlamentare estremista e nominata, che non ha preso preso il voto di un italiano che sia uno appare un controsenso non trascurabile.
La decisione del presidente del Senato (come abbiamo visto) è stata presa dopo un testa a testa tra Grasso e Schifani. I grillini, ago della bilancia, dovevano, da duri e puri, evitare d’immischiarsi nei giochi di potere tra Schifani ed un magistrato che ha appeso la toga al chiodo (non ha chiesto l’aspettativa come Ingroia, per capirci), comunque colpevole dell’ennesimo immischiarsi della magistratura negli affari della politica e della vischiosità dei rapporti tra le due istituzioni (o Poteri) dello Stato. A convincere i parlamentari del M5S è stato forse il fatto che Schifani sia attualmente indagato per concorso eventuale in associazione mafiosa (ombre di giustizialismo ricadono pesanti sui cinque stelle). Non si può invocare il voto di coscienza nella prima votazione, la prima prova in cui si doveva testare l’unità del movimento che aveva deciso di votare scheda bianca. Il Movimento di Grillo perde così troppa della sua credibilità. Non si tratta di una legge sulle staminali o che so io… Si tratta dell’elezione di una persona, per la quale nella riunione del gruppo parlamentare cinque stelle si era deciso di fare una scelta. Anche se questa scelta avesse portato all’elezione di Schifani il M5S non avrebbe dovuto piegarsi ad intrallazzi ed inciuci. Così non è stato.
Prossimo ostacolo, forse il decisivo per il Movimento di Grillo e per il Paese, la scelta del garante delle istituzioni del paese per i prossimi sette anni: l’inciucio tra Pd e Pdl per il nome di Massimo D’Alema si fa pressante alle finestre, e se il Movimento Cinque Stelle non saprà resistere alle raffiche di invitante vento di ponente, sarà la FINE del movimentismo e della speranza da molti riposta nella rivoluzione della politica. Fine che si è già intravista dalla prima votazione parlamentare cui il M5S ha preso parte: l’elezione dell’ex magistrato alla guida di Palazzo Madama.
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Di Redazione Elzeviro.eu

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