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Silvio Berlusconi: l’uomo che salvò l’Italia da Achille Occhetto

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Mala tempora currunt: con questa espressione i Latini definivano i tempi calamitosi e negativi che con ripetitiva frequenza ogni tanto si verificarono nella loro lunga storia. Questa espressione ci sembra particolarmente adatta per descrivere il momento che sta vivendo l’elettorato moderato nel nostro paese.

Disorientato e afflitto al tempo stesso il popolo che fu del Centrodestra non sa come reagire alla parabola drammatica e discendente del loro capo carismatico e alla lotta intestina che si è creata all’interno di quello che fu il Popolo delle Libertà. Tra falchi, colombe, lealisti e traditori ogni cittadino elettore, che  negli ultimi venti anni si è immedesimato con lo spirito e gli ideali del suo capo, guarda ora attonito a quella che sembra una riedizione del “5 maggio“. L’incipit ormai famoso di manzoniana memoria riecheggia penosamente nella mente perduta di milioni di Italiani: “Ei fu. Siccome immobile, dato il mortal sospiro, stette la spoglia immemore orba di tanto spiro, così percossa, attonita la terra al nunzio sta, muta pensando all’ultima ora dell’uom fatale;”. Berlusconi è morto politicamente, così almeno pare e traspare dagli aviti consessi, e gli amici di un tempo, come da sempre succede su questi lidi levantini, salgono velocemente sul carro del più forte dopo essere prima scesi da quello di chi li aveva portati alla gloria attuale.

Cose che succedono dentro le nostre mura e che sono la specialità di un popolo che non ha mai avuto il coraggio delle sue idee fino al punto di morire per queste e con queste, almeno per coerenza di coscienza. Non spetta a noi entrare nel merito dell’intricata vicenda tra…volatili, ma alla storia che ne verrà scritta dai posteri sperando in una loro obbiettiva ed esaustiva riesumazione. A noi al limite spetta far riecheggiare nelle orecchie degli Italiani un monito di laocoontica memoria ed un rimembrare vago, ma salutare, dei tempi che furono perché la memoria non langua troppo a lungo orba di un passato che ci fa comunque esistere e vivere in questo momento presente. Sovviene tornare con la mente a quel lontano e fatidico marzo del 1994 quando il buon Silvio, in una riedizione di quel “Carroccio” che osò levare dalle mani di un Federico Barbarossa la nostra terra, osò sfidare in campo aperto un tal Achille Occhetto che sulla battigia che guardava alle mura turrite della fatal Troia, aveva radunato un tale esercito di navi e di guerrieri che oscuravano il mare e la vista tutta intorno.

Era il tempo della “Gioiosa macchina da guerra” messa in campo da chi, per bieco opportunismo elettorale, all’alba del giorno successivo alla caduta del Muro di Berlino, aveva clonato il vecchio PCI nel PDS che di questo ne era tal degno erede. La bramosia elettorale di mangiarsi in un sol boccone la patria avita fece mettere in atto la farsa della divisione del vecchio insieme in due sottoinsiemi: Partito Democratico della Sinistra e Rifondazione Comunista, tanto ideologicamente diversi da “unirsi amorevolmente” nella immane coalizione para-catto-neocomunista che si accingeva a sgretolare le antiche e turrite mura della povera Italia avita. Achille Occhetto che, del bagaglio tipico di un guerriero d’apparato quale egli era, nella sua tenda di comando sui Mirmidoni a lui fedeli, possedeva la favella faziosa, la tracotanza demagogica e l’odio secolare di classe. Odio allora esasperato nei toni e nelle fattezze contro chi adesso langue sommerso e annientato da un fisco molesto mentre lui ora se la gode onorato da splendido e onorevolissimo appannaggio reddituale: corsi e ricorsi di un destino crudele o, se preferite, di quella dea beffarda che tanti ne mise sull’altare e tanti ne riportò alla polvere.

Nel campo degli affamati Achei di rosso vermiglio vestiti, prima della fatal pugna, si celiava e si commentava con sovrumano disprezzo sulle gesta degli avversari anche quando costoro prendevano le sembianze di un centinaio di ragazzini con magliette colorate dalla triplice fiamma che un dì fecero un po’ di innocua cagnara davanti al sacro piazzale di Montecitorio. Una goliardica azione finita con “l’inaudito epilogo di inaccettabile violenza” del lancio di alcune monetine di antico conio contro le teste dei politici di un tempo con l’invito a lor signori, con incredibile preveggenza Sibillina per quei tempi lontani, di andare a lavorare… . Il pelide Achille sull’episodio, commendabile ma risibile, dichiarò dall’alto del suo podio tonante che si era trattato di un “attacco fascista al parlamento“. Molti nel campo degli Achei applaudirono ma nel resto delle terre marmariche non furono pochi quelli che a tal sovrumana fesseria si sbellicarono per il gran ridere.

Questo era il personaggio che stava  per  fagocitarsi gioiosamente il bel paese dalle Alpi alla Sicilia, dalla piana di Canne all’Eridano. Un’armata la sua che oltre ai cugini sosia, che si poterono permettere, nel gioco delle parti, di mantenere immutato l’antico blasone della Falce e del Martello, comprendeva le entusiastiche schiere dei Cristiano Sociali, dei Socialisti viscerali, della non ben definita Rete, dei Verdi e quant’altro potesse dare possanza a tale  invincibile e temibile armata. Se le avite plaghe avessero dovuto sottostare al peso di simili schinieri e pesanti scudi la nostra Patria avrebbe vissuto un’altra storia da raccontare agli aedi futuri, una storia sicuramente e drammaticamente peggiore di quella comunque tranquillizzante che la generazione con i capelli grigi ha vissuto in quei lunghi anni. Anni di stenti sì ma anche di libertà anche se di una libertà macchiata e infangata dal malaffare e dagli scandali di antica memoria.

Ebbene se quel signore innominato e innominabile che si fa appellare Cavaliere, sul cui conto molto si dice e ancor di più si mormora, non avesse chiamato a raccolta il popolo dei libertari attorno ai suoi nuovi e fiammanti vessilli del liberismo di antica memoria, saremmo tutti passati sotto le forche caudine dell’aggressivo stuolo dei rossi Achei e ora non sarebbe per noi possibile in alcun modo favellarne perché terribilmente adagiati sull’incudine per ricevere in rapida successione il colpo della falce e poi quello del martello. Per questo motivo, al di là delle odierne contese più o meno intestine, più o meno fratricide, più o meno di bandiera, siamo comunque in debito con quell’uomo che, avendo allora resistito dentro le sue mura, salvò sé stesso ma anche noi insieme a lui dall’ira del buon Achille. Lo stesso uomo che, dopo aver resistito con grandi vittorie in una guerra ventennale, ha dovuto soggiacere all’astuzia del buon Odisseo, dal volto affabile ma capace di entrare dentro le mura con il suo bel cavallo imbottito di armi e di guerrieri. E ora purtroppo Ettore, ovvero il prode Gianfranco Fini, l’unico che aveva le armi e la forza per aiutare l’antico Silvio amico e i suoi Troiani a resistere, è stato ucciso non dal pelide Achille ma dalla sua stessa cupidigia e presunzione. 

 

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Di Roberto Crudelini

Nato nel 1957. Laureato in Giurisprudenza, ha collaborato con Radio Blu Sat 2000 come autore e sceneggiatore dei Giornali Radio Storici, ha pubblicato "Figli di una lupa minore" con Rubettino, "Veni, vidi, vici" e "Buona notte ai senatori" con Europa Edizioni e "Dai fasti dell' impero all'impero nefasto" con CET: Casa Editrice Torinese. Collabora con Elzeviro.eu fin dalla sua fondazione, nel 2011.

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