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Omicidio Regeni: la responsabilità è dell’Università inglese ma nessuno ne parla più

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“British Lake” (“Lago britannico”). Era questa la pomposa definizione utilizzata negli ambienti vicini alla Corona inglese nel secolo scorso in riferimento al mar Mediterraneo.

di Gabriele Tebaldi

Quel mare all’apparenza semichiuso, ma crocevia di popoli, civiltà e culture, è sempre stato visto da una certa élite britannica nostalgica del suo passato coloniale come un semplice punto di transito verso i propri possedimenti. Niente più che un lago quindi, utilizzato per fare la spola per il proprio imperialismo.

Occorre tenere a mente questo concetto per poter analizzare la vicenda legata all’omicidio di Giulio Regeni che, come dimostrano questi ultimi giorni, torna ciclicamente in cima alle gerarchie del circuito mediatico mainstream. Non si registrano però sostanziali novità nella vicenda.

Lo spartito che coinvolge Roma, Il Cairo e i media è sempre uguale a se stesso

Le autorità egiziane sono infatti disponibilissime a collaborare, fino al momento di fare nome e cognomi degli assassini. Il Governo italiano mostra segnali di insofferenza verso l’Egitto, ma tutto poi rientra con nuove dichiarazioni distensive condite da affari redditizi per entrambi i Paesi. Nel mezzo, il circuito mediatico mainstream strepita istericamente, denunciando l’apparato repressivo del Presidente Al Sisi (dimenticandosi che proprio gli stessi giornali appoggiarono entusiasticamente le rivolte del 2011 che hanno appunto portato l’Egitto verso un regime ben più rigido di quello retto da Mubarak).

Torniamo ora per un attimo al “British Lake”, perché chiunque abbia osservato la vicenda di Regeni non può sentirsi di ridurla ad un semplice incidente dovuto a qualche testa calda dell’apparato di Al Sisi, ma può ragionevolmente constatare la presenza di interessi geopolitici che vanno aldilà dell’Italia e dell’Egitto. Desta infatti piuttosto stupore la scelta di canalizzare la vicenda sull’unico asse Roma-Il Cairo, quando in realtà Giulio Regeni si trovava in Egitto non dietro mandato di un’istituzione italiana, ma per conto dell’Università britannica di Cambridge.

Tutti ormai sanno che Giulio Regeni

si trovava al Cairo per svolgere una ricerca universitaria per approfondire ruolo dei sindacati indipendenti in Egitto. Pochi però sottolineano il livello di pericolosità che la realizzazione di una simile ricerca comporta all’interno di un Paese che in nemmeno cinque anni aveva subito una doppia e sanguinosa rivoluzione per poi trasformarsi in un regime autoritario e fortemente repressivo verso qualsiasi forma di dissenso.

In un contesto del genere non si può non constatare la manifesta pericolosità del tema della ricerca di Regeni che, come emerso dalle indagini, era stato scelto proprio dalla professoressa di Cambridge Maha Abdel Rahman, nonché tutor dello studente italiano.

La stessa professoressa aveva poi suggerito a Regeni il nome di una nota attivista egiziana, Rabab El Mahdi, come sua consulente di tesi. Una donna già nota e sotto stretto osservamento da parte della polizia del Cairo. Insomma ci sarebbero tutti gli elementi atti a dimostrare perlomeno l’ambiguità del ruolo della nota Università britannica.

In mezzo l’attivista egiziana Rabab el Mahdi durante una manifestazione.

Eppure da come oggi ci viene presentata la vicenda

sembra che Regeni si trovasse in Egitto per puro caso e che sia stato una vittima altrettanto casuale della brutalità di un regime. Un timido articolo in controtendenza è stato pubblicato lo scorso febbraio da Il Fatto Quotidiano, che, citando le dichiarazioni dei pm in riferimento alla tutor di Regeni, scriveva:

la professoressa Maha Abdel Rahman non ha mai collaborato con le indagini e non ha più risposto dopo il primo contatto formale.

Se il principio del “British Lake” fosse ancora valido in qualche ozioso circolo nostalgico inglese, si potrebbe ipotizzare che la vicenda Regeni sia stata utilizzata come strumento della politica estera londinese con l’intenzione di compromettere il peso economico italiano nell’ex protettorato britannico. Un’ipotesi che rimane tale ma che continua ad essere corroborata dal vivace attivismo dell’Eni in Egitto che porta a continue nuove scoperte.

Perché quindi far sparire dai radar mediatici e politici l’Università di Cambridge?

 

 

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