Parte della recente proposta della Commissione europea si basa sulla ricerca di nuovi modi per finanziare il blocco stesso. Ma non esistono cose come soldi nuovi o freschi. I soldi dovranno essere meritati e andranno rimborsati dai contribuenti.
Insomma non esistono e non esisteranno soldi a fondi perduto, nella UE.
Perché la UE è un modello interamente improntato all’export che si fonda sulla stabilità dei prezzi attraverso la deflazione salariale. Come ci dovrebbero ricordare l’agenda 2010 e la riforma Hartz IV realizzate in Germania. Come ci dovrebbe ricordare l’impressionante numero di persone che in Europa è povera nonostante lavori: 1 su 10.
come in Italia, regna una narrazione opposta alla realtà dei fatti, come ha ricordato – seppur con qualche imprecisione – il Ministro delle finanze belga, Alexander De Croo.
È tempo di liberarsi dalla narrazione del Sud “pigro” e del Nord “laborioso”. Il Nord Europa ha beneficiato enormemente della moneta unica. Secondo i calcoli del Bertelsmann Stiftung, quelli che hanno beneficiato maggiormente del mercato interno sono stati la Germania, insieme ai Paesi scandinavi, baltici e del Benelux. In gran parte grazie a un euro sottovalutato.
È facile dimenticare, ma la macchina da esportazione italiana funzionava a pieno regime negli anni 90 e nei primi anni 2000. Visto da Roma, l’euro rappresenta una perdita netta. È come se il modello economico “tedesco” sia stato imposto loro con la forza con Bruxelles che si è messa di traverso tra l’Italia e la sua oliata macchina da esportazione.
Ma la macchina italiana funzionava bene non solo e non tanto per l’export. È vero, con una valuta commisurata alla propria economia, cioè non sopravvalutata, ne guadagnava anche l’export italiano.
Ma nel modello italiano funzionava meglio soprattutto il mercato interno. Si lavorava di più e si guadagnava meglio.
e tutte queste cose non possono esserci – e non avrebbero comunque senso – in una società in cui aumentano i lavori precari e sottopagati e, quindi, sempre più disuguale.
E mentre Conte prova a far passare un pacchetto di “aiuti” in Parlamento che comprenda il ricorso a BEI, SURE, MES e Recovery Fund, anche Confcommercio si vede costretta a ricordare cosa succede quando crolla la domanda interna.
A rischio un milione di posti di lavoro.
Questo perché tra febbraio e aprile le vendite al dettaglio sono crollate del 15,8%. Una flessione dei consumi che a fine anno potrebbe essere tra i 91 e i 110 miliardi. Molti di più dei 75 miliardi di euro stimati dal Governo. E che potrebbe far chiudere 270.000 imprese.
Ecco perché mai come oggi servirebbe una classe politica con una visione che vada oltre al prossimo appuntamento elettorale e che sia in grado di proporre un’immagine del Paese da qui ai prossimi 20 anni. Almeno.
Un Paese in cui lo Stato torni a dettare le direttive nel campo del lavoro formando, assumendo, investendo. Scommettendo insomma sulle capacità del Paese e dei suoi abitanti.
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