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Fiat, Benetton e Arcelormittal: i peggiori gruppi industriali che l’Italia possa meritare

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E’ stato detto che l’ultimo vettore di sviluppo economico in Italia risiede nella straordinaria ricchezza, capacità di adattamento e particolarità locale delle piccole e medie imprese.

Occore infatti ricordare che prima della sua liquidazione da parte del centro sinistra, le aziende pubbliche italiane contribuivano a quasi la metà del Pil del Paese. La sola IRI copriva negli ’80 il 13% del Pil, occupando più di mezzo milione di persone.

Dopo la svendita a inizio ’90 di questo immenso patrimonio, il testimone dello sviluppo è così passato interamente nelle mani delle PMI, che ad oggi costituiscono ancora oltre l’80% del tessuto economico del Paese. Oggi, causa crisi dovuta al coronavirus e a misure economiche solo annunciate ma ancora non realmente arrivate, anche la sopravvivenza delle PMI risulta essere minacciata.

Sembra quindi giunto al suo epilogo quel sogno di sviluppo italiano che grazie al patrimonio pubblico e alle sue piccole operosità locali era riuscito a portare il Paese ad insidiare Gran Bretagna e Germania nelle posizioni economiche europee.

A questa tragica fine ha certamente contribuito

l’inettitudine della classe dirigente della II Repubblica, ma non solo. Nel mondo industriale italiano c’è sempre stato un grande buco nero. Una zona d’ombra rappresentata da una casta di alcune famiglie che hanno in mano le chiavi delle grandi aziende private del Paese. Ebbene questo gruppo di industriali sembra aver interpretato nel tempo non già il ruolo di iniziativa privata che contribuisce allo sviluppo della collettività circostante.

Sembra bensì che questa élite poco illuminata abbia invece preferito vestire i panni del feudatario, senza nemmeno avere l’onere di fare la guerra, vivendo di rendita pubblica e scaricando i rischi di impresa sul tessuto economico e sociale del Paese. Un atteggiamento che sembra assumere un’inquietante linea di continuità anche in un momento di profonda crisi come quello che sta attraversando ora l’Italia.

Partiamo da Fca

Il gruppo automobilistico, un tempo denominato Fiat, dopo aver ricevuto contributi pubblici dal 1977 per un totale di 7,6 miliardi di euro, ha infatti voltato le spalle ai suoi principali finanziatori: i cittadini italiani. Questi soldi pubblici hanno infatti contribuito ad evitare il fallimento del gruppo, entrato in profonda crisi negli anni 2000, eppure, nonostante questo, Fiat, diventata nel frattempo Fca, ha deciso di andare a pagare le tasse altrove. Sede legale in Olanda e sede fiscale nel Regno Unito.

Il mercato globale si allarga, mentre quello italiano si restringe, insieme agli stabilimenti automobilistici. Il gruppo è però in salute e nel 2018 e 2019 registra un elevato livello di utili netti. Eppure di fronte all’attuale crisi da coronavirus, Fca non solo ricorre subito allo strumento della cassa integrazione, prolungata nonostante la riapertura delle attività, ma intende ottenere garanzie pubbliche per oltre 400 milioni di euro. Garanzie che, secondo le dichiarazioni ufficiali, saranno “subordinate ad investimenti in Italia”. Bene, peccato che, come ha ricordato Carlo Calenda, non di certo un pericoloso comunista, Fca non abbia più rispettato un piano industriale da tempo.

Passiamo ora alla famiglia Benetton

principale azionista del gruppo Atlantia, beneficiario della svendita di larga parte delle autostrade italiane. Ebbene anche questo gruppo ha recentemente chiesto garanzie statali per superare la crisi da covid-19, minacciando per giunta la sospensione di oltre 14 miliardi di investimenti. Un comportamento decisamente sopra le righe, soprattutto se si pensa all’indagine ancora in corso che intende fare luce sulle responsabilità del crollo del Ponte Morandi. A proposito lo scorso novembre l’edizione genovese di Repubblica riportava testualmente:

Nel registro digitale di Atlantia è stato trovato un documento che già a partire dal 2014 parlava di rischio crollo per il ponte Morandi.

“Esistono delle cattive borghesie, delle cattive èlites, quelle che io definisco élites parassitarie, che non vivono certamente di democrazia e neanche certamente di buon mercato, ma vivono di rendita”. Questa definizione data dal deputato Renato Brunetta sembra calzare a pennello.

Andiamo infine al caso Arcelormittal

La società franco lussemburghese che ha acquisito il famoso stabilimento di acciaierie di Taranto, ex Ilva. Ebbene anche in questo caso, il colosso aziendale vive di cassa integrazione statale. In un recente servizio mandato in onda dal programma Povera Patria si può osservare lo stabilimento fermo e inattivo, nonostante la ripresa delle attività economiche strategiche sia ormai avvenuta da un mese. I dipendenti per strada a manifestare per un lavoro che forse perderanno.

Quest’atteggiamento di arrogante menefreghismo dell’azienda è stato poi confermato dallo stesso Ministro Patuanelli, che ha così dichiarato:

Dò per scontato che arriverà un piano che non è assolutamente in linea con quanto abbiamo discusso per mesi fino a marzo e con quanto si aspetta il governo.

Insomma quello che emerge da questo quadro, al netto dell’inettitudine della classe politica, è il peso che l’Italia e i suoi cittadini hanno dovuto sopportare di un’élite industriale che ha prosciugato fin dove ha potuto le risorse pubbliche del Paese, scaricando sulla stessa comunità finanziatrice i costi sociali della sua impresa. Siano essi in termini occupazionali, che in termini di vite umane.

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Di Gabriele Tebaldi

Classe 1990, giornalista pubblicista, collabora con Elzeviro dal 2011, quando la testata ha preso la conformazione attuale. Laurea e master in ambito di scienze politiche e internazionali. Ha vissuto in Palestina, Costa d'Avorio, Tanzania e Tunisia.

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